L’incendio che ha bruciato un terzo del Vesuvio

L’11 luglio 2017, un mese fa, sul Vesuvio infuriava uno degli incendi più disastrosi della sua storia, profondamente diverso da quelli che sono stati descritti nelle cronache dei secoli scorsi. Gli incendi d’un tempo – così venivano chiamate le eruzioni succedutesi dal 1631 al 1944 – erano certamente spaventosi e, talvolta, distruttivi, ma comunque sempre opera della natura. L’incendio che un mese fa ha bruciato un terzo dell’area del Parco Nazionale istituito nel 1995 intorno al vulcano napoletano, invece, è un atto totalmente umano. Non ne conosciamo ancora le cause, né i colpevoli, infatti le piste investigative sono molte, tutte con una loro quota di verosimiglianza, nonché tutte contemporaneamente possibili: business dell’emergenza, della bonifica e della riforestazione; economia dei rifiuti e dell’abusivismo; espressioni della criminalità spicciola in ascesa o della criminalità organizzata in radicamento; vandalismo urbano e turbe psichiatriche, disattenzione e noncuranza. Ciò su cui insistiamo noi, invece, riguarda il ruolo delle istituzioni: ciò che i roghi vesuviani hanno reso lampante è l’inadeguatezza, l’impreparazione, l’insufficienza, il ritardo della pianificazione, della prevenzione, dell’assunzione di responsabilità da parte degli amministratori pubblici, dall’Ente Parco alla Regione, passando per i Comuni e la Città Metropolitana.
Per tenere memoria di un evento che riteniamo uno spartiacque nella gestione (ordinaria) del nostro territorio, così come nella prevenzione dei rischi (tutti), abbiamo messo insieme dei dati che Natale De Gregorio ha trasformato in tre infografiche: la cronologia delle fiamme sul Vesuvio, i numero del disastro, gli effetti della distruzione (con, alla fine, un piccolo lume di speranza).

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E’ bene ricordare, infine, che l’incendio dell’11 luglio non è arrivato all’improvviso, perché il Vesuvio bruciava già da un mese. Pertanto, riproponiamo qui i nostri interventi pubblicati sulla pagina-Fb “Rischio Vesuvio: informiamoci e attiviamoci“, nonché i contributi di altri studiosi e attivisti particolarmente utili per una corretta lettura degli eventi.

Un approfondimento interessante è stato pubblicato su “Napoli Monitor”, con vari contributi:

Altre analisi e testimonianze che consigliamo sono le seguenti:

  • 16 luglio, Luigi Vitiello sui volontari che distribuiscono cibo agli animali sopravvissuti.
  • 23 luglio, Giovanni Marino, coordinatore del Movimento “Cittadini per il Parco”, sulla fiducia al Presidente del Parco Nazionale.
  • 26 luglio, Marco Manna sulla Mobilitazione “Vesuvio Basta Fiamme”.
  • 28 luglio, Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto della DDA di Napoli, sul pericolo di infiltrazioni criminali nel business del rimboschimento e della bonifica.
  • 6 agosto, Giovanni Marino, coordinatore del Movimento “Cittadini per il Parco”, sul piano di rilancio del Parco da parte del Presidente.
  • 7 agosto, Giovanni Gugg sulla visione d’insieme del fenomeno degli incendi.

PS: questo post è una versione estesa dello status pubblicato su Fb dalla pagina “Rischio Vesuvio”: QUI.

Una città tra i vulcani. Rischio multiplo e prevenzione istituzionale a Napoli

Durante una conferenza tenuta il 3 marzo 2006, il filosofo Biagio De Giovanni citò lo scrittore Raffaele La Capria, secondo il quale “Napoli è città della decadenza“. Il contesto in cui venne pronunciata questa frase fu un convegno dai Radicali di Napoli sul rischio Vesuvio (uno dei tanti, nel corso degli ultimi decenni, proposto da quella compagine politica). Le parole di La Capria sono un ottimo sfondo per una questione enorme che, con fatica, si tenta di far emergere nel dibattito sociale, culturale e politico in merito al rischio cui è esposta la città: come ridare un futuro a Napoli, deviando dal percorso attendista cui sembra essersi adagiata negli ultimi decenni, ovvero uscendo da un pantano che ha paralizzato menti e gesti.
Una selezione di interventi di quella giornata del 2006 è stata riproposta il 22 giugno 2017 su “Radio Radicale”: in una trasmissione di oltre 2 ore, curata da Aurelio Aversa, si sono susseguite le voci di Marco Pannella, di De Giovanni, appunto, e di Giuseppe Luongo e Aldo Loris Rossi. E’ possibile ascoltare tutto cliccando qui:

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A mia volta, propongo la trascrizione di alcuni brani delle relazioni di questi ultimi due. Le parole di Luongo e di Rossi, infatti, sono particolarmente adatte per introdurre un articolo che ho firmato insieme a Clementina Sasso per “Napoli MONiTOR”, il 15 giugno 2017, in cui affrontiamo il rischio multiplo della città di Napoli, e di cui farò una presentazione più ampia dopo le due citazioni.

Giuseppe Luongo, vulcanologo (dal minuto 35’30”):

Abbiamo un primato, quello di avere il rischio vulcanico più elevato al mondo. La mitigazione del rischio non solo è un impegno morale e sociale, ma è anche un buon affare, perché possiamo vedere che la riduzione del rischio attraverso una pianificazione dell’uso del territorio – e quindi riducendo l’esposizione del territorio all’evento naturale – riduce l’impegno economico del Paese quando avviene un’emergenza. Se noi scegliamo l’emergenza come unico obiettivo, noi spendiamo almeno il 20% in più di quanto è possibile risparmiare con la pianificazione. […] Perché questo territorio è a rischio? Per la sua natura, innanzitutto: da Ischia alla Penisola Sorrentina è una sorgente di pericolosità. Per pericolosità ci riferiamo all’evento naturale, cioè alla probabilità che possa verificarsi un evento che produce un danno […]. Ebbene, seppur la pericolosità – cioè la probabilità che avvenga un evento – sia bassa in alcuni periodi, il rischio è alto perché è alta la vulnerabilità del territorio, cioè è alto il valore esposto. Tutto ciò significa che, qualora si verificasse un evento, il rischio è il prodotto della probabilità che accadrà l’evento e dei danni possibili che possono realizzarsi: i danni crescono se è alta la vulnerabilità e se è alto il valore esposto. Siccome vulnerabilità e valore esposto sono alti, anche la pericolosità può essere un po’ più bassa, il prodotto risulta comunque molto elevato. Il nostro obiettivo, quindi, è mitigare il rischio attraverso: 1) la riduzione della vulnerabilità del territorio (del costruito, dell’urbanizzato), 2) la riduzione del valore esposto dei territori.
Uno dei problemi, dunque, è come ridurre la vulnerabilità del territorio: come si riduce? Si riduce con una pianificazione dell’uso del territorio: ricerca scientifica alla base, forte conoscenza del comportamento del territorio, e contromisure. […] In altre parole, bisogna ridurre il livello di vulnerabilità del territorio e il numero di abitanti. Quindi, il problema della città di Napoli va risolto in un contesto territoriale molto più ampio: se non si legge questo fenomeno ad un livello almeno regionale, noi non lo risolveremo mai.
Il rischio è anche una grande occasione perché, attraverso la considerazione del rischio, possiamo attrarre risorse per la trasformazione del territorio. Quindi, non è solo un guaio, ma può essere anche un volàno […] ma è necessario canalizzare le idee, cioè avere un progetto che attragga abitanti in zone meno pericolose e, nelle zone più esposte, che recuperi uno sviluppo compatibile (coinvolgendo dunque il Parco Nazionale del Vesuvio, parchi archeologici, attività di alta formazione, turismo avanzato… attività produttive molto soft e poco hard, perché è il cervello ciò che deve produrre e non la fabbrica, in questi casi). Se noi riusciamo a fare un’operazione di questo genere – in 25-30 anni si può anche fare, come elaborazione generale – qui arriva una quantità di quattrini che fa paura. Soprattutto, c’è un progetto, c’è futuro, non c’è attesa.

Aldo Loris Rossi, urbanista (dal minuto 50’12”):

Chi ha modo di girare per l’area metropolitana napoletana può constatare un livello di degrado che non ha paragoni né in Italia, né in Europa. Per avere un minimo riferimento dimensionale, ricordo che la Campania ha la stessa popolazione della Norvegia, della Finlandia e della Danimarca, però concentrata su un’area estremamente più piccola. Pensate che nella provincia di Napoli c’è una densità abitativa di 2800 abitanti per km quadrato, cioè 4 volte quella di Roma, 9 volte quella di Firenze e 10 volte quella di Palermo. Abbiamo, quindi, una densità abitativa esplosiva. Aggiungete, poi, che il territorio è piccolissimo: pensate che la distanza da Napoli a Caserta è di soli 20 km, cioè quanto l’isola di Manhattan, quanto il diametro del Raccordo Anulare di Roma, sicché Caserta e Napoli sono sul Raccordo Anulare di Roma! Pensate che la provincia di Napoli è due terzi del solo comune di Roma.
Allora, in questa condizione disastrosa, è evidente che occorre una strategia strutturale per modificare questa realtà. […] Qui occorrono quattro rivoluzioni intrecciate: occorre una rivoluzione etico-politica, senza la quale non è possibile fare un passo in avanti; occorre una rivoluzione economica, cioè una transazione dalla struttura produttiva tardo industriale a quella post-industriale; occorre una strategia di riequilibrio ambientale; occorre costruire, infine, uno scheletro portante a questo sistema invertebrato, che è quello dell’area metropolitana di Napoli.
I dati sono precipitati negli ultimi 60 anni. Pensate che nel 1945, in Italia, circolavano 300.000 auto; oggi ne abbiamo 40 milioni. Pensate che la rete autostradale del 1945 era di 479 km; oggi siamo a 6.000 km. Per quanto riguarda i vani costruiti, nel 1945 avevamo 35 milioni di vani residenziali; oggi ne abbiamo 120 milioni. Questi dati ci impongono di prendere coscienza di una situazione incontrovertibile: i problemi di Napoli non si possono risolvere all’interno del confine comunale. […]

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Venendo all’articolo mio e di Clementina Sasso, ecco come lo ho presentato in altra sede:

Da due anni la pagina Facebook “Rischio Vesuvio: informiamoci e attiviamoci“, che curo con Clementina Sasso, riporta (talvolta “traduce”) notizie sul rischio geologico dell’area vesuviana e flegrea, tentando di alimentare un dialogo costante con i residenti nelle zone rosse (e, più in generale, con gli utenti di questo media).
Alcuni giorni fa abbiamo fatto un passo avanti, avviando una collaborazione con “Napoli MONiTOR“: il nostro obiettivo è di proporre periodicamente delle analisi più ampie, rispetto ai post su Fb, in merito al rischio dell’area napoletana. Differenziando i linguaggi e moltiplicando le piattaforme, la nostra ambizione è che il tema del rischio (vulcanico, sismico, ma pure ecologico, sanitario…) cresca nella collettività, così da farne un argomento politico in senso pieno.
Il primo contributo è uscito la settimana scorsa e riguarda soprattutto Napoli, bellissima e millenaria città che, sorta tra i Campi Flegrei e il Vesuvio, negli ultimi decenni è divenuta una metropoli che ha abbracciato e, anzi, inglobato entrambi i vulcani. Oltre ad analizzare il contesto urbano e gli strumenti istituzionali attualmente in atto, ci siamo spinti ad indicare alcune strade da percorrere. Discuterne pubblicamente sarebbe per noi un gran risultato.
Il testo è pubblicato in una sezione speciale di “Napoli MONiTOR”, intitolata “Lo stato della città”, ossia la versione digitale – in continuo aggiornamento – di un libro collettivo uscito nel 2016.
Inutile dirvi quanto ne sia contento.

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La pagina-Facebook di “Napoli MONiTOR” ha presentato il testo pubblicando questa anteprima:

Oltre al livello essenzialmente tecnico dell’evacuazione, in una futura emergenza vulcanica di Napoli – sia sul versante flegreo che su quello vesuviano – si dovrebbero considerare almeno altri tre piani, tutti da costruire ora che – come si dice nell’ambiente del risk management – è “tempo di pace”. Andrebbe intanto fatta una riflessione su quello che Escobar, Sachs e altri hanno definito “post-sviluppo”, una sorta di strumento critico di ripensamento e ricollocazione. L’invito, cioè, è a considerare lo sviluppo come un fenomeno storico emerso nel secondo dopoguerra in quanto espressione della modernità e del capitalismo, dunque coi suoi eccessi e azzardi. Ciò significa avviare politiche di mitigazione del rischio, che sono difficili, di lungo periodo e che richiedono enorme coraggio politico in varie sedi istituzionali, ma che rappresenterebbero anche la presa di coscienza che l’esposizione attuale degli abitanti che vivono nelle zone rossa e gialla è stata costruita – si potrebbe dire edificata – nel corso degli ultimi decenni.
In secondo luogo, bisognerebbe cominciare un dialogo – quotidiano e continuo – con la popolazione: oggi ne abbiamo i mezzi, per esempio attraverso il web, ma con un’attenzione maggiore rispetto a quella osservata nel paragrafo precedente. Posto che sia fondato e fattibile, infatti, il piano di evacuazione ha qualche possibilità di successo solo se è conosciuto e condiviso, ossia ri/elaborato insieme a chi ne è direttamente coinvolto, i residenti; altrimenti sarà – come attualmente è – non solo ignorato, ma rifiutato.
Infine, sarebbe opportuno iniziare una governance del territorio che promuova la partecipazione e la sussidiarietà: a Napoli, come intorno al Vesuvio e nei Campi Flegrei, ci sono moltissime persone che hanno voglia di fare e che già ora si prendono cura del territorio. Questo, però, accade al di fuori delle istituzioni, in piccoli gruppi di amici, in associazioni talvolta sconosciute: sono comunità di scopo che rappresentano enormi risorse di cittadinanza attiva, interi pezzi di città che vanno coinvolti e messi in rete. Se non si vuole scivolare nell’illusione di far apparire fattibile un piano di evacuazione che metta in salvo centinaia di migliaia di persone in poche ore, anzi se non ci si vuole prestare a una pericolosa forma di “rassicurazionismo” di massa che allontana la consapevolezza e fa abbassare l’attenzione, è ora di cominciare a considerare “beni comuni” anche talune immaterialità, come, appunto, la sicurezza collettiva.

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Come ho commentato sotto un’altra condivisione, tengo a precisare che:

il Piano di Emergenza (a qualsiasi livello venga applicato) non ha il compito di comunicare, così come – a rigore – non ha quello di mitigare. Sono due punti, infatti, che ritengo debbano essere considerati e sviluppati dalla politica (e, Clementina ed io, nel testo non ne abbiamo fatto riferimento in merito alla Protezione Civile o, chessò, al campo scientifico: ne abbiamo parlato discutendo del website dell’Amministrazione Comunale).
Sul comunicare, il dibattito è piuttosto avanzato, sebbene – limitatamente alla comunicazione del rischio – di soluzioni concrete ne veda ancora poche; sulla mitigazione, invece, la questione è prettamente politica: riguarda una determinata visione del territorio e dello sviluppo, oltre che una specifica idea di democrazia e partecipazione (è un’utopia? può darsi, ma come tutte le utopie, non indica una meta, bensì un percorso).
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PS: per dirla tutta, personalmente ritengo il Vesuvio come un caso-studio con cui sperimentare forme prototipali di comunicazione e partecipazione: ormai anni fa, ho proposto sia al Dipartimento di Protezione Civile a Roma, sia all’Assessorato alla Protezione Civile della Campania (ma ne ho parlato anche a livello comunale) un progetto di comunicazione specifico per il Vesuvio, volto a favorire il dialogo e la sussidiarietà. Inutile sottolineare da quanto tempo stia aspettando che ai sorrisi, ai complimenti e alle pacche sulle spalle seguano decisioni concrete.

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Per concludere, segnalo che un’ottima integrazione dell’articolo è, secondo me, la “Piccola storia del PRG Napoli 2004” pubblicata il 17 giugno 2017 da Vezio De Lucia su “Eddyburg”:

Un piano misconosciuto, ancora vigente e positivamente operante poiché costruito e gestito nei decenni in cui le scelte urbanistiche erano espressione di valori sociali e culturali altrove smarriti o contraddetti nei decenni successivi.

Gli 8 buoni comportamenti in caso di inondazione

4 ottobre 2016

Il dissesto idrogeologico è tra i problemi più gravi e frequenti d’Italia: come scriveva circa un anno fa Gian Antonio Stella, negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto almeno «5.455 morti, 98 dispersi, 3.912 feriti e 752.000 sfollati» in 2.458 comuni nei disastri causati dall’acqua; e i costi per affrontare i danni e i disagi superano la cifra di 7 miliardi l’anno dal dopoguerra a oggi (dal 1951, il bilancio sarebbe di 448 miliardi di euro, con una accelerazione di anno in anno più marcata).
Secondo un altro calcolo, dal 1960 al 2012 in Italia si sono avute oltre 4.200 tra frane e alluvioni.
Com’era noto già a Leonardo da Vinci, per capire dove si abbatterà il prossimo disastro bisogna conoscere la storia del territorio. Siamo in ottobre, in Italia sta per piovere e i luoghi più esposti sono tanti, ma tutti ben conosciuti. Tra questi anche la Penisola Sorrentino-Amalfitana, della quale tempo fa elencai i principali disastri idrogeologici avvenuti dal 1910 al 2010 (mancano i casi più recenti e dovrei aggiornare la cronologia almeno con la frana del Capo di Sorrento, nel marzo 2014).
Come ho già evidenziato ieri per l’anniversario dell’alluvione in Costa Azzurra, gli “imputati” principali di questa fragilità sono essenzialmente tre:

  1. l’abbandono delle terre, specie quelle collinari;
  2. il riscaldamento climatico che provoca fenomeni metereologici improvvisi e violenti;
  3. l’urbanizzazione eccessiva.

Già nel 1973 Antonio Cederna scriveva che «la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica» sono «il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana». Nel frattempo la consapevolezza del consumo di suolo si è fatta largo, ma intanto, come ricorda Fabio Balocco, «dal 1956 ad oggi la superficie impermeabilizzata dal cemento e dall’asfalto in Italia è aumentata del 500%». Ed è con questo stato delle cose che dobbiamo fare i conti.
Non sono un sostenitore dell’approccio emergenziale, ritengo che i disastri possano essere evitati o, almeno, attenuati aumentando la cura del territorio e il coinvolgimento popolare, ma siccome il meteo è più regolare di un orologio svizzero, in tanti luoghi a rischio d’Italia il prossimo acquazzone può rivelarsi pericolosissimo e, in questo momento, non c’è altro da fare che limitare al massimo il rischio personale e collettivo. Così, ho deciso di condividere con voi un cartello diffuso dal Ministero dell’Ambiente francese in cui sono elencate le otto buone pratiche da seguire in caso di allarme idrogeologico. Non so se ne esista uno anche italiano, probabilmente si, ma non avendolo incrociato, vi propongo questo:

14495294_708778179274078_4135345266960772014_n1) mi informo ascoltando la radio;
2) non prendo la mia auto e segnalo i miei spostamenti;
3) non percorro una strada allagata, sia in auto che a piedi;
4) mi allontano dai corsi d’acqua e non mi fermo sulle rive o sui ponti;
5) non esco durante i temporali;
6) non scendo in cantina, ma mi rifugio ai piani alti;
7) mi occupo dei miei familiari, dei miei vicini e delle persone vulnerabili;
8) non vado a prendere i miei figli a scuola in caso di allagamento, loro sono al sicuro.

Due prospettive diverse sul rischio Vesuvio

Sul numero odierno del “Corriere del Mezzogiorno”, la giornalista e scrittrice Eleonora Puntillo ha pubblicato un articolo sul nostro Vesuvio: «Vesuvio, il gigante (finora) buono
che merita più rispetto. Troppe chiacchiere sul vulcano da esperti a caccia di pubblicità: sarebbe meglio rilanciare i progetti dell’Ente parco con una visione d’insieme».Screenshot 2016-01-18 13.26.21.png

Tra un’immagine romantica («il gigante appare molto amato, abbracciato com’è da un mare di case») e una dimostrazione d’affetto («è una terra piena di risorse, fruttifera, ospitale, salubre, ricca di bellezza e di storia»), Puntillo esprime tutta la sua preoccupazione per il rischio generato dal rapporto squilibrato tra l’azione umana e la natura dell’area, confidando nell’Ente Parco Nazionale del Vesuvio come unico strumento davvero efficace «per difendere e valorizzare correttamente l’intero territorio». Oltre a speculatori d’ogni tipo, la scrittrice individua altri personaggi “dannosi”, come «imprenditori televisivi bisognosi di introiti pubblicitari» che fanno leva sulla paura, nonché «sedicenti scienziati vogliosi di gloria mediatica», anch’essi preoccupati solo di lanciare allarmi (in questo caso, per la verità, il ragionamento appare più debole perché se si intende difendere l’ambiente e le istituzioni ad esso preposte, allora non si capisce perché chi si oppone alle trivellazioni sfidi «il ridicolo», secondo l’autrice). Comunque sia, l’articolo pone al centro del discorso sul rischio due aspetti poco “da Protezione Civile”, ovvero appunto l’ambiente e la cultura, che come cambio di prospettiva rispetto al solo approccio emergenziale, non ci dispiace affatto.

Per contro, il prossimo 30 gennaio 2016 a Massa di Somma alcune associazioni vesuviane terranno il convegno “Sviluppo sostenibile per la Zona Rossa: definizione del Condono e valorizzazione del territorio” [2]. A giudicare dal comunicato stampa [il download è diretto], in questo caso lo sguardo appare molto diverso da quello proposto da Eleonora Puntillo.

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Queste brevi riflessioni introduttive ai due testi sono anche sulla pagina facebook “Rischio Vesuvio: informiamoci e attiviamoci“.

Il Vesuvio brucia

Ieri pomeriggio, 16 settembre 2015, il Vesuvio ha cominciato a bruciare. Si tratta di tre focolai divampati piuttosto in alto, nei pressi della Riserva Alto Tirone, una zona particolarmente protetta all’interno del Parco Nazionale, o ancora più in quota, alla base del Gran Cono. Questa è una foto scattata da Sorrento:

Foto scattata a Sorrento da Sciorincio.

Foto scattata a Sorrento da Sciorincio.

Una cronaca è su “Il Mattino“, mentre altre immagini sono su “YouReporter“, “FanPage“, “Repubblica” e sulla pagina fb dell’utente Carlo Falanga.

Come osserva Ciro Teodonno su “Il Mediano”, «Inutile sottolineare il danno inestimabile che subisce ancora una volta il fragile e già martoriato ecosistema del Parco Nazionale del Vesuvio». Inoltre, bisogna usare cautela in merito alle cause dell’incendio perché ancora non vi sono prove che sia doloso.
Tuttavia, al di là di eventualità naturali (a causa dei fulmini, ad esempio, mentre l’autocombustione è quasi improbabile) e a ragioni accidentali (ad esempio uccelli folgorati sui pali elettrici e che, cadendo a terra, causano una combustione, ma è un’altra possibilità statisticamente irrilevante), la gran parte degli incendi è dovuta a ragioni colpose e dolose. Nel primo caso si tratta di imprudenza e imperizia, come il celebre mozzicone di sigaretta gettato da un’automobile o i fuochi dei gitanti e talune pratiche colturali. Nel secondo rientra un vero e proprio atto illecito, a sua volta determinato da due possibili figure, l’incendiario (per vandalismo, per vendetta, per profitto o per altro crimine) e il piromane (che è un criminale affetto da disturbi psichiatrici).
Ognuna di queste sfumature richiede contromisure adeguate, di educazione, terapia, tutela e così via. Ma c’è un piano che è prettamente sociale, dunque politico, ovvero quello degli interessi economici. Per comprenderne l’ampiezza, rimando ad una inchiesta firmata da Fabrizio Gatti il 23 agosto 2013 su “L’Espresso”: «Affari di fuoco. Nessuna prevenzione, tanti sprechi. E gli interessi delle società che spengono i roghi. Ecco perché l’Italia brucia».

Intanto, il dolore di chi ama il Vesuvio è profondo, come traspare da alcuni post su fb.

La “Associazione Vesuvio Natura da Esplorare – Laboratorio AMV” ha scritto:

L’incendio al Vesuvio di oggi rattrista gli animi di tutti; le proporzioni sono considerevoli e una grande parte di macchia mediterranea sopra quota 600m slm si sta tuttora bruciando.
Si spera che il fuoco non arrivi nella pineta del Tirone… Ogni pino che prende fuoco infatti divampa in una fiammata visibile da tutto il golfo. Con grande probabilità l’incendio è DOLOSO.. e su questo c’è solo da stendere un velo pietoso…
I forestali sono intervenuti da subito ma non si è riusciti ad arginare l’incendio prima di notte.. e nelle ore notturne purtroppo non è possibile operare.
Domani alle prime luci dell’alba partiranno di nuovo le squadre antincendio. Ma il danno c’è ed è consistente, tante specie animali e vegetali stanno ora morendo o hanno perso il loro habitat.
Non c’è perdono per chi è capace di fare una cosa del genere, né c’è scusante!
Tutto il popolo vesuviano stasera è a lutto!

Il gruppo “Anima Vesuviana” ha pubblicato queste parole:

Lagrime di fuoco…
Arde il Vesuvio…arde da 8 ore, arde la stessa natura che aveva vinto il fuoco distruttore, ardono i fiori e i pini che erano tornati a rendere verde e vivo il cratere dopo 60 anni..
Arde tutto…arde l’anima di chi può solo chiedere aiuto, impotente.
Nel devastante silenzio dell’indifferenza di chi può e non agisce e nel fallimento di chi avrebbe potuto, tutto Arde, e poco possiamo noi.
Fiamme che diventano lacrime, lacrime di fuoco …osservate e non comprese da chi sopravvive all’esistenza…
Lacrime di fuoco che dovrebbero penetrarci l’Anima ..
In questo folle esistenza dove noi diveniamo Carnefici e un vulcano vivo diviene vittima..l’egoismo e il famelico bisogno di primeggiare nella stupidità ci hanno distrutto.
Arde l’Anima mia…Arde il Vesuvio, Formidabile e nero..più nero del buio della notte…arde…ed io ardo assieme a lui.
Laura Noviello/ Anima Vesuviana

Stamattina sono riprese le operazioni di spegnimento con l’impiego di un canadair, dopo che le fiamme hanno arso per tutta la notte: “Ansa“, “Corriere del Mezzogiorno“, “Repubblica“. Sempre più forti, infine, i sospetti che si tratti di un incendio doloso, dal momento che sono stati rilevati almeno tre i punti di innesco segnalati in posti diversi.

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Di recente, il Vesuvio ha bruciato anche il 30 agosto 2015:

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Incendio del 30 agosto 2015: clicca sulla foto per accedere alla cronaca de “Il Mattino”. (L’immagine è mia, scattata da Sorrento).

PS: Di entrambi gli incendi ho scritto sul mio fb: il 30 agosto e il 16 settembre.

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AGGIORNAMENTO del 18 settembre 2015 (mattina):
In questo momento (7h30 del mattino) il Vesuvio brucia ancora. Il focolaio attivo è, secondo Massimo Ginelli, un testimone incontrato su fb, ad un chilometro dal fuoco divampato il 16 settembre. Cause accidentali o naturali? Vista la dinamica, direi che non ci sono più dubbi sul dolo o, quanto meno, sulla negligenza. Quanto bosco e quanto macchia mediterranea devono sparire prima che un Parco Nazionale venga difeso adeguatamente?
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Intanto, fiamme ardono in ben due località della Penisola Sorrentina:
– a Nerano (nel comune di Massa Lubrense): qui e qui (fiamme appiccate senza dubbio da qualcuno);
– a Tordigliano (tra i comuni di Piano di Sorrento e Vico Equense in Costiera Amalfitana): qui (in questo caso, però, l’incendio pare sia dovuto ad un’auto andata a fuoco).

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AGGIORNAMENTO del 18 settembre 2015 (pomeriggio):
Poco fa, alle ore 14h00, il Vesuvio era ancora in queste condizioni:

18 settembre 2015 ore 14

L’immagine è stata scattata da Sorrento (ancora da Sciorincio, che ringrazio).

Sono le 18h00 e sul web sta circolando un appello a volontari che vadano a scavare una trincea per spezzare la linea del fuoco: le fiamme sono a poche centinaia di metri dalle abitazioni più in quota di Torre del Greco, non ci sono né mezzi, né personale sufficienti per domare un incendio in un Parco Nazionale e, come ha commentato un amico, questi vorrebbero salvarci in caso di allarme eruttivo.

Il pennacchio intossicato del Vesuvio

ssv_incendio-discarica_2015giugno-luglioLo vedi, ti lacrimano gli occhi.
Lo odori, ti pungono le narici.
Lo tocchi, ti si appiccica sulla pelle.
Lo assapori, ti brucia lo stomaco.
Lo senti, sebbene sia silenzioso.
Sì, ne avverti la presenza e non c’è riparo: ti chiudi in casa in questa afosa calura estiva che meriterebbe finestre spalancate e tende mosse dalla brezza, invece lo ritrovi ovunque, impregna tutto con la sua puzza grassa e nauseante.
Fino ad alcuni anni fa i medici di Napoli prescrivevano soggiorni lassù, alle pendici del vulcano, perché l’aria era fresca, buona, pulita, in grado di guarire tutte le forme d’asma e di rigenerare ogni fatica.
Il Vesuvio, uno dei monti più noti al mondo, celebrato per la sua forza e la sua bellezza, teoricamente protetto da un Parco Nazionale e da una “zona rossa”, oggi agonizza. E, con lui, chi vi abita e, soprattutto, chi lo ama.
Inutile ripercorrere la storia di saccheggio e di rapina ai danni del Vesuvio, la conosciamo tutti molto bene. Quel che forse è meno chiaro è che questo è solo l’ultimo episodio, gravissimo, di un disastro di lunga durata che denunciamo da decenni.
Il 30 giugno qualcuno ha appiccato il fuoco alla discarica illegale a cielo aperto dell’area Novelle-Castelluccio, nota a tutti e ripetutamente segnalata. Per almeno quattro giorni l’incendio non è stato domato, per cui sorge il sospetto che questa inefficacia sia un modo cinico e irresponsabile di risolvere un altro problema, quello del periodico smaltimento di un enorme cumulo di spazzatura che altrimenti non si saprebbe dove dislocare e che renderebbe impraticabile quella zona più di quanto non lo sia già.
Proviamo ad andare a ritroso e poniamoci qualche domanda: com’è possibile che non si sia spento immediatamente quel rogo inquinante? Com’è possibile che solo in pochi informino su tale notizia e che, comunque, non si sollevi un dibattito pubblico? Com’è possibile che amministratori e forze dell’ordine non agiscano? Forse loro non ne sentono la puzza e non ne colgono la pericolosità? Sembra davvero strano. Può darsi che attendano un’analisi chimica dell’atmosfera, ma è davvero così burocraticamente necessario un documento scritto, dinnanzi all’evidenza dell’esperienza diretta, sensoriale e mentale che a migliaia hanno vissuto negli ultimi giorni? Ancora, risalendo la catena di cause ed effetti di questo disastro ambientale – per nulla imprevisto ma, al contrario, preparato da tempo – com’è possibile che la località Novelle-Castelluccio, nel comune di Ercolano, ma a ridosso di San Sebastiano al Vesuvio, sia una zona franca dello Stato italiano, un luogo a legalità sospesa della nostra Repubblica? Com’è possibile che da decenni nessuno veda e risolva la piaga criminale dell’abbandono di rifiuti? Cumuli di immondizia d’ogni tipo – domestica e industriale, di risulta e a trattamento speciale – segnano la strada di terra battuta che attraversa quel territorio, la tracciano nel suo andamento dissestato, la inquadrano nella sua tortuosità. Com’è possibile che non sia mai stata fermata la mano di chi là, per negligenza o per interesse, getta scarti di ogni genere e poi, sempre lo stesso delinquente (è evidente) vi va periodicamente ad appiccare il fuoco per liberare spazio a nuovi futuri depositi? Qui sono responsabili tanto l’ecocriminale quanto le istituzioni cieche e indifferenti o, e forse è ancora peggio, vacue e inconcludenti, perché se così fosse, sarebbero anche inutili.
Dalla metà degli anni Sessanta denunciamo la violenza rappresentata dalla grande discarica a cui è stata ridotta questa zona, perché non c’è differenza alcuna tra la “collina del disonore” dell’Ammendola-Formisano e l’attigua corona di pattume di Novelle-Castelluccio: la violenza di questo immenso immondezzaio è ambientale, paesaggistica, sanitaria, biologica; nella sua fattualità è una violenza della criminalità, organizzata o individuale, ma nell’inoperosità delle istituzioni è anche una violenza politica, una violenza contro il buon senso e il senso della misura, una violenza contro la pazienza, il rispetto, la speranza. È una violenza simbolica e concreta che si riproduce da cinquant’anni, sia quotidianamente negli spargimenti occulti, sebbene sfacciati, sia stagionalmente, nella scellerata pratica incendiaria di cui in questi giorni si pagano le conseguenze.
Quel vasto territorio è in piena area naturale protetta e necessita di una profonda bonifica dal punto di vista naturalistico e legale: si tratta di un’urgenza ecologica, nonché di un imperativo morale. A meno che non venga esplicitamente detto che ci troviamo in un’eterna deroga, in un’infinta eccezione.
Quel pennacchio vesuviano intossica, nel duplice senso che possono cogliere i nostri conterranei: avvelena e fa ammalare, ma fa anche arrabbiare, inquina il rapporto con le istituzioni, contamina la convivenza reciproca e alimenta la sfiducia, la disaffezione, la delusione. Quel pennacchio di diossina è lo specchio in cui non vogliamo rifletterci perché temiamo ciò che vedremmo, ovvero i lineamenti di una società tossica e assuefatta, la fisionomia di una comunità – locale e nazionale – né solida (e solidale), né liquida (e resiliente), ma ormai pulviscolare, gassosa, volatile. Con tutta evidenza, è necessario un nuovo metro, un nuovo stile, una nuova filosofia: una ecosofia che ripulisca l’aria, la terra, le falde acquifere, che ridia dignità al paesaggio e ai sentieri, ma che sia anche in grado di ristabilire un principio di equità, di legalità, di misura in questa autolesionistica deriva etica che nessuno sembra in grado di arrestare.

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Un video di Ciro Teodonno:


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Altre pubblicazioni online su questo incendio:

  • “San Sebastiano al Vesuvio News”, 30 giugno: QUI;
  • “San Sebastiano al Vesuvio News”, tre foto dall’interno dell’incendio: QUI;
  • Ciro Teodonno, “Fuoco invisibile“, in “Il Mediano”, 1 luglio 2015: QUI;
  • Ciro Teodonno, “Ercolano: la Terra dei Fuochi e la politica marziana“, in “Il Mediano”, 5 luglio 2015: QUI.

La discarica SS268

La Strada Statale 268 è indicata come “via di fuga” in caso di emergenza vesuviana, ma in che modo una strada circolare possa permettere l’evacuazione di massa resta un mistero. Anzi, la SS268 “del Vesuvio” è una strada mortale in sé, sia per gli umani [1] che per gli animali.
Ciro Teodonno l’ha percorsa insieme a Mimmo Russo per documentarne e denunciarne un’altra criticità, quella dell’immondizia che ne riempie i bordi, le piazzole di sosta, ma soprattutto le stradine laterali e lo spazio sottostante i cavalcavia, spesso incendiata provocando altri ed ulteriori problemi. Si tratta di rifiuti d’ogni tipo, soprattutto industriali di aziende che lavorano in nero, in una catena di piaghe sociali ed ecologiche che si alimentano l’un l’altra. E’ un vero e proprio viaggio nell’abisso del nostro tempo, tra gli scarti di una modernità che sviluppa rovine e produce malattie.
L’articolo di Teodonno si intitola “SS 268, quello che non si vede” ed è stato pubblicato sul webjournal “Il Mediano” il 14 settembre 2014. Fanno parte integrante dell’inchiesta anche una galleria fotografica ed un videodocumentario di 47′:


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[1] Gli incidenti sono frequenti, talvolta tragici, come un paio nel 2013: a gennaio morirono 4 persone e a maggio un’intera famiglia.
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Raccolgo informazioni sulla SS268 in questo post privato.

Parco nazionale, automobili, cemento, piano di emergenza, santi, cinema: il Vesuvio nel mese di agosto 2014

Esattamente un anno fa il vulcanologo giapponese Nakada Setsuya si domandava (e ci domandava): gli italiani parlano del Vesuvio? A giudicare dal mese di agosto 2014 si direbbe di si, ne parlano molto. Il punto è: come ne parlano? E ancora: ma poi agiscono in base a quel che dicono? Nell’ultimo mese si è discusso del Vesuvio soprattutto per tre questioni: la nomina del nuovo presidente del Parco Nazionale (che non c’è stata, per cui è stato nuovamente rinnovato il commissariamento), l’apertura al cemento concessa dall’attuale Giunta della Regione Campania (che ha dilatato i tempi di due vecchi condoni edilizi), il rischio vulcanico e la sua gestione (tema legato al precedente, ma sollevato anche da un numero della rivista “Le Scienze”). Non sono mancati, però, articoli che hanno riguardato il nostro vulcano anche per altri argomenti, come la devozione popolare in caso di emergenza, il 1935esimo anniversario dell’eruzione del 79 d.C. e un paio di nuovi film in cui il Vesuvio è più o meno protagonista.
Di seguito riporto link e commenti su tali notizie, tratti dai socialmedia che frequento.

6 settembre 2014:
Spesso ci rassicuriamo ripetendoci che un’esplosione vulcanica è preceduta, talvolta per mesi, da segnali precursori. In questo modo – ci diciamo e ci viene detto – avremo modo di evacuare con relativa serenità. Quei sintomi, però, possono anche non avvenire o presentarsi con scarso anticipo, per cui dovremmo considerare seriamente anche l’ipotesi di non avere tempo sufficiente a scappare. Se considerassimo realmente questa possibilità, pretenderemmo politiche urbanistiche e di gestione del territorio molto più restrittive e non di apertura al cemento come l’ultimo “maxiemendamento” promulgato dalla Giunta della Regione Campania. Come scrive MalKo, si tratterebbe di politiche che

comportano il blocco dell’edilizia e il varo di misure atte a delocalizzare sul serio gli abitanti. I ruderi non si riatterebbero ma si demolirebbero; i sottotetti non potrebbero avere altezze da abitabilità; niente più condoni; massicci abbattimenti dei manufatti abusivi ricadenti in zona rossa; reticoli viari di emergenza e non di sviluppo. […] Le amministrazioni comunali non si scervellano per trovare soluzione ai fattori di rischio bensì a quelli del cemento. […] Il premier Matteo Renzi, dovrebbe far recuperare credibilità istituzionale in queste zone, incominciando con l’aprire un’inchiesta sullo sproporzionato numero di abusi edilizi che segnano un territorio a rischio. Incominci poi a sospendere alcune norme del maxiemendamento, a iniziare dai condoni e da qualsiasi altra iniziativa che comporti un aumento del numero di residenti. Se non per abitarci per quale motivo si ristrutturebbero i ruderi? Per sicurezza si possono più facilmente abbattere […].

(MalKo, Rischio Vesuvio: quale difesa?, in “Hyde Park”, 30 agosto 2014).

AGGIORNAMENTO dell’8 settembre 2014:
Un nuovo articolo di MalKo si sofferma sul fenomeno dell’abusivismo in area vesuviana:

[…] l’abusivismo e i condoni, minano immediatamente il territorio e la sicurezza di quelli insediati con le carte in regola, e ancora espongono le generazioni future a un rischio maggiore a causa dell’aumento del pericolo, perché secondo la scienza, con il tempo cresce la possibilità che l’eruzione che verrà abbia un indice energetico decisamente più alto delle stime probabilistiche attuali […].

Nel post è rinnovato, inoltre, l’invito al Presidente del Consiglio Renzi di istituire «una commissione d’inchiesta parlamentare che faccia luce sul fenomeno».

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6 settembre 2014:
Il 5 agosto 2014 Ciro Teodonno ha pubblicato un articolo sul “maxiemendamento” della Regione Campania in cui si fanno delle concessioni al cemento, anche in zona rossa vesuviana. Dopo un mese l’associazione neAnastasis ha risposto con un pezzo critico verso le interpretazioni di Teodonno, il quale il giorno dopo ha controribattuto. Personalmente, ho contribuito con i seguenti commenti su alcuni socialmedia:

“L’inefficienza e la tolleranza degli Enti locali nel controllo del territorio e l’abusivismo dilagante e talora irresponsabile contribuiscono a determinare, oltre la distruzione di un patrimonio naturale unico al mondo, risorsa essenziale per attività economiche, investimenti e occupazione, le conseguenze disastrose che puntualmente si sono verificate anche nello scorso anno” (Antonio Guida, presidente del Tar della Campania, citato da Vittorio Emiliani il 4 marzo 2012, qui).
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Aprire brecce al cemento, specie in territori già ampiamente inondati da decenni di edilizia selvaggia (cosa che, nel caso specifico, ha causato l’attuale, enorme, vulnerabilità intorno al Vesuvio), è semplicemente irresponsabile. La giustificazione del rilancio occupazionale, poi, è pelosa perché, a conti fatti, ogni condono (aperto, riaperto o dilatato che sia) è antieconomico (Gian Antonio Stella, 10 febbraio 2013, qui).
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Secondo uno studio di Legambiente citato da G.A.Stella nel 2003, sommando la sanatoria del 1985 e quella del 1994, le domande di condono per abusi edilizi nei soli 13 comuni che hanno un pezzo del territorio dentro il Parco nazionale del Vesuvio, furono 49.087 [qui].
Ampliare i termini dei due condoni significa, dunque, rendere potenzialmente legali quasi 50mila edifici che hanno già consumato suolo (agricolo e non), hanno già eroso appeal turistico (il paesaggio, oltre ad essere un “documento” storico e identitario è anche uno straordinario attrattore), hanno già ampliato ulteriormente la vulnerabilità del territorio (dal punto di vista del rischio sismico, vulcanico e idrogeologico), hanno già arricchito la criminalità (il ciclo del cemento in Campania, è noto, è in mano a determinati clan camorristici e un abuso edilizio, com’è evidente, non può che essere realizzato in maniera illegale, ovvero con strutture illegali).
Su come gestiamo il nostro territorio ci guarda e valuta (e giudica) il mondo intero [qui] [qui].

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5 settembre 2014:
“San Sebastiano al Vesuvio News” ha pubblicato un resoconto dell’odierna trasmissione radiofonica “24 Mattina”, dedicata al rischio vulcanico della nostra area. Ospiti: Ugo Leone, commissario del Parco Nazionale del Vesuvio, il giornalista Alessandro Milan, il sindaco di Terzigno Stefano Pagano.

Andresti a vivere nella zona rossa del Vesuvio? Questo il sondaggio lanciato da un reportage del settimanale Panorama a cura di Maria Pirro. Nel mirino le abitazioni costruite alle pendici del Vulcano più pericoloso al mondo ed il timore che si continui ad edificare. Prede spunto da qui, la seconda parte del programma radiofonico 24 Mattino di oggi, in onda su Radio 24.

(I rischi della zona rossa, se ne parla al programma radiofonico “24 Mattina”, in “San Sebastiano al Vesuvio News”, 5 settembre 2014)

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31 agosto 2014:
Abbiamo il governo più veloce del mondo, eppure il ministro dell’ambiente non riesce a trovare il tempo per nominare il nuovo Presidente del Parco Nazionale del Vesuvio. Nessuna istituzione vive di sei mesi in sei mesi, è dunque lecito chiedersi cosa si voglia fare del territorio vesuviano e, più in generale, del sistema delle aree protette italiane.
Francesco Gravetti, Parco Vesuvio, la storia infinita: ancora una proroga per Ugo Leone. Altri sei mesi di commissariamento per l’area protetta: la scelta del nuovo presidente diventa sempre più un caso politico e istituzionale. Intanto si avvicinano le regionali e impazza il toto nomine (in “Il Mediano”, 31 agosto 2014).

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24 agosto 2014:
Dalla pagina fb del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma:

24 agosto: la data dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. è attestata da una lettera di Plinio il giovane a Tacito «Nonum kal. septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie.» (Gaius Plinius Caecilius Saecundus, Epistularum liber VI, 16, C. Plinius Tacito Suo S.), ma alcuni studiosi indicano un periodo successivo all’estate

[1 – Raffigurazione di Bacco e del Vesuvio in un affresco pompeiano precedente al 79 d. C.; 2 – Calco del corpo di una vittima dell’eruzione del Vesubvio del 79 d.C., trovato assieme ad altri nel cosiddetto “Orto dei fuggiaschi” a Pompei; 3 – Pietro Fabris (Napoli, 1740-1792: Eruzione del Vesuvio del 1760-1761; 4 – Alessandro D’Anna (Palermo 1746 – Napoli 1810): Eruzione del Vesuvio del 1794, con la processione dell’Immacolata; 5 – Giorgio Sommer (Francoforte sul Meno 1834 – Napoli 1914): L’eruzione del Vesuvio, 26 Aprile 1872]

«[Mio zio] era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l’una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell’ordinario sia per la grandezza sia per l’aspetto. […]» (dalla lettera di Plinio il Giovane a Tacito, il cui testo integrale è qui).

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20 agosto 2014:
Un articolo storico di Giovanni De Luna in cui spiega che durante l’eruzione vesuviana del 1944

ci fu un grande tramestio di santi e madonne; uscirono dalle loro chiese Sant’Anna a Boscotrecase, San Giacomo a Pollena, San Giovanni Battista ad Angri, addobbato con i fogli-fazzoletti delle banconote delle Am-lire, la carta moneta stampata dagli Alleati.

(G. De Luna, Il Vesuvio erutta e San Gennaro gioca in trasferta. Nella Napoli degli sciuscià e delle «segnorine» occupata dagli Alleati, il vulcano distrugge i villaggi e scatena una guerra tra santi, in “La Stampa”, 8 agosto 2014)

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19 agosto 2014:
La trasmissione “Overshoot” di “Radio Radicale” dell’altro ieri [qui] ha avuto ospiti l’urbanista Aldo Loris Rossi e il direttore di “Le Scienze” Marco Cattaneo, che ha dedicato il numero di agosto al rischio vesuviano [qui].
Avevo espresso qualche riserva nei confronti dell’editoriale di Cattaneo, poi ho letto anche l’articolo principale della rivista e il mio scetticismo si è confermato.
In merito a quanto pubblicato, l’analisi più accurata l’ha scritta MalKo, un esperto di gestioni di emergenze, nell’editoriale “Rischio Vesuvio e l’informazione di massa“, in “Hyde Park”, 10 agosto 2014.
Personalmente, ritengo che i servizi de “Le Scienze” e, in parte, anche della trasmissione di “Radio Radicale” abbiano delle lacune – non so quanto inconsapevoli – che veicolano un’idea fuorviante della situazione vesuviana. Non è vero che c’è un nuovo piano di emergenza, è vero solo che è stata riperimetrata la zona rossa, con conseguente ridefinizione dei gemellaggi. Non è vero che in tre giorni si possono evacuare 700mila persone (con qualsiasi mezzo), soprattutto perché non vi sono vie di fuga, meeting point e indicazioni. I catastrofisti non mi piacciono, ma neppure i rassicurazionisti, come sostanzialmente sono gli autori del numero in questione: la realtà è fatta di lacune istituzionali, se non addirittura di incoerenza (aprire al cemento in zona rossa, come ha fatto di recente la Regione Campania, è qualcosa che va in direzione decisamente contraria alla mitigazione del rischio). Manca – ed è sempre mancato – un serio piano di comunicazione alla popolazione, oltre alla ormai endemica assenza di inclusione nel processo di pianificazione.
Se si intende parlare seriamente di rischio Vesuvio, bisogna distinguere: una cosa è la dimensione scientifica (monitoraggio dell’attività vulcanica e prevedibilità dell’evento atteso), un’altra la dimensione istituzionale (innanzitutto di organizzazione e gestione dell’emergenza, ma soprattutto di responsabilità politico-amministrativa), un’altra cosa ancora è la dimensione socio-antropologica (e questa non è mai presa in considerazione da chi ha il potere di decidere: la popolazione non è ascoltata, non è avvertita, non è coinvolta, ma al contrario viene frequentemente stigmatizzata, se non ridicolizzata).

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8 agosto 2014:
Il prossimo autunno al cinema ci sarà “Sul Vulcano“, un documentario di Gianfranco Pannone che [il 10 agosto è stato] presentato fuori concorso al 67esimo Festival di Locarno. Il vulcano, naturalmente, è il Vesuvio.

Su “Repubblica” di oggi c’è un’intervista al regista: “Ha fatto più danni il Vesuvio in 2000 anni o l’uomo in 100?” (qui). Altre interviste a Pannone sono su: “Cinecittà News“, “Io Donna“, “Il Mattino“.

E’ da segnalare, inoltre, che alla Mostra del Cinema di Venezia è stato presentato “Il giovane favoloso“, un film biografico di Mario Martone su Giacomo Leopardi, interpretato da Elio Germano. Com’è noto, il poeta visse i suoi ultimi anni in una splendida villa di campagna ai piedi del Vesuvio [sinossi]. Il film uscirà nelle sale il 16 ottobre e questo è il suo primo trailer:

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4 agosto 2014:
Regolamentare il traffico automobilistico sulla bocca di un vulcano? La questione sembrerebbe surreale, e forse lo è, eppure in cima al Vesuvio è necessario porsela. Ci si immaginerebbe che il Gran Cono, in quanto centro e simbolo di un Parco Nazionale, debba godere di un ferreo disciplinamento dei flussi, dei rumori, dei fumi. Invece…
Giovanni Marino, Che succede a quota 1000?, nel blog del Movimento “cittadini per il Parco”, 4 agosto 2014.

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2 agosto 2014:
A proposito degli spiragli cementizi concessi dall’attuale Giunta della Regione Campania, anche nelle zone di pregio paesaggistico e di rischio geologico, e dei dubbi di chi si domanda se il rischio Vesuvio sia “scientificamente reale”, ecco cosa ne pensa Ugo Leone (“La Repubblica“):

«E malamente e volutamente disinformata è da decenni la dirigenza politico amministrativa della Regione che si affida ai piani di evacuazione ignorando più utili e “salutari” alternative» (Ugo Leone)