In un brano che cito spesso, Vito Teti scrive: «Le nostre sensazioni, le nostre percezioni, la nostra memoria, la nostra vita non possono che essere raccontate e rappresentate rispetto a un luogo. Noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi: tutti i luoghi, reali o immaginari, che abbiamo vissuto, accettato, scartato, combinato, rimosso inventato. Noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con i luoghi».
La prima reazione della maggior parte delle persone a cui chiedo un’intervista per la mia ricerca è di un certo disagio o imbarazzo. Qualche reminiscenza di interrogazioni scolastiche si riaffaccia alla memoria, per cui subito scatta una sorta di “meccanismo di difesa” che porta a schivare la mia proposta e a reindirizzarmi verso qualcuno più “esperto” di loro. Dal canto mio faccio il possibile per non usare il termine “intervista”, che reputo logoro e monodirezionale (nel mio settore, ovviamente), pertanto uso “chiacchierata”, quale in effetti poi si rivela anche agli occhi dei miei informatori.
Studiare la “vita quotidiana” stupisce, evidentemente perché nel “banale” si ritiene non ci sia nulla di interessante: “ma che ti posso dire, io?“, sembrano pensare molti che, anzi, a volte me lo dicono chiaramente. “Io, proprio io, sono una persona semplice, conduco una vita regolare, apro il negozio, sto qui tutto il giorno, frequento solo la mia famiglia o qualche parente… uso l’auto, non vado a piedi; sul vesuvio ci vado quando fa la neve o per una festa di matrimonio… che posso dirti, io?“. Invece a me interessano proprio i dettagli “insignificanti”, quelli in cui posso anche ritrovare me stesso: i miei ricordi in altri luoghi, con altre persone, ma in situazioni simili, con esigenze e legami più vicini di quanto possa apparire ad un primo sguardo. E poi arriva sempre la sorpresa, la particolarità che non ti aspetti, la sfumatura che rende unici ciascuno di noi.
In queste prime due-tre settimane del 2011 ho incontrato molte persone, con tutte ho costruito un bel dialogo, ma tutti naturalmente da proseguire e approfondire. Ho preso anche molti altri contatti e la mia preoccupazione, in questo momento, è di non intasarmi di appuntamenti. Dopo ogni incontro ho bisogno di un certo distacco, di un po’ di silenzio per assorbire ciò di cui abbiamo parlato, ciò che mi è stato raccontato. In questo senso, le ore trascorse in auto per raggiungere SSV o per tornare a casa mia sono una specie di camera di decompressione in cui, a seconda del senso di marcia, preparo o ripenso all’incontro. In autostrada, tra le strade tortuose della mia Penisola e lungo le vie trafficate del vesuviano non è semplice concentrarsi su altro che non sia la guida, ma col registratore acceso conservo i pensieri che mi vengono in mente, magari raccontando in viva voce la giornata alla mia fidanzata al telefono…
Vabbè. Piccoli dettagli, dicevo, episodi minimi, luoghi secondari, pomeriggi d’infanzia… Non sempre li si può evocare “a comando”, allora bisogna coglierli quando si manifestano nel modo più spontaneo. Conosco una persona che ha una grande capacità di riconoscere e comunicare aneddoti, circostanze, sensazioni quasi impercettibili eppure di grande significato e profondità. Costui me le racconta, le colgo dalle sue riflessioni ad alta voce, ma le scrive anche pubblicamente. Di seguito alcuni brani tratti dal suo blog e dal webgiornale con cui collabora.
A proposito di una piccola stradina oggi abbandonata e vandalizzata: “I miei ricordi di bambino mi portano indietro nel tempo, quando andavo in quel casolare a comprare il vino per mio nonno. Ricordo quando m’accoglieva una bonaria vecchietta sdentata che mi affidava al marito, vecchietto troppo alto per reggere il peso del lavoro e degli anni che, perennemente curvo, s’incamminava, accompagnandomi verso la cantina. E questa era la vera sorpresa, si passava prima in un cellario, leggermente al di sotto del livello del terreno ma poi, attraverso un’angusta scalinata scavata nella lava si scendeva verso il basso, alla cantina vera e propria, molto umida ma piacevolmente fresca d’estate. Era illuminata da una lampada da sessanta watt appesa a una piattina bianca che faceva vibrare le ombre al nostro passaggio. Lentamente risalivo alla luce; era piacevole attardarsi e fantasticare con quelle ombre ma il vecchierello mi esortava a sbrigarmi. Chissà se esiste ancora quella cantina“.
A proposito di un’associazione sportiva nata dal basso: “Ricordo ancora quando, tassativamente, prima di cominciare una partita di calcio, all’epoca si riusciva ancora a giocare in ventidue su un campo semiregolamentare, si doveva zappettare il campo di gioco, sradicare erbacce e togliere pietre. Mentre i nostri genitori, accantonate le vicissitudini della quotidianità, si arrovellavano in riunioni fiume nelle proprie case, per la gestione di quel sogno comune, dare uno spazio degno di questo nome ai giovani di via degli Astronauti. Sia ben chiaro, all’epoca, volendo, si poteva ancora giocare a pallone per strada, e addirittura in discesa! Ora però, la cara, vecchia e malandata via, se sei fortunato, forse, riesci solo ad attraversarla“.
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Tra i commenti le versioni complete dei due post citati, più altre informazioni.