Il costo dei disastri naturali

Tempo fa, impostando il mio studio sul rischio vesuviano, riflettevo sull’impatto che un’eventuale eruzione avrebbe sull’economia locale. Gli effetti sarebbero enormi e decisamente non limitati alla provincia di Napoli (dove verosimilmente ci sarebbe una paralisi), ma si avrebbero ripercussioni pesanti su tutto il Sud, dunque sull’Italia intera. Com’è intuibile, non mancherebbero conseguenze anche nel resto dell’Europa comunitaria.
Nelle interviste che ho raccolto nei mesi scorsi, questo tipo di preoccupazione è molto più circoscritta; spesso i miei interlocutori hanno fatto riferimento alla diminuzione del prezzo degli immobili in concomitanza di episodiche intensificazioni dell’allarme, magari perché il dibattito pubblico si è riacceso a causa di una catastrofe in Giappone oppure perché è stata effettivamente avvertita una scossa sismica o, ancora, perché qualcuno si è lanciato in una azzardata previsione… Da queste testimonianze sembrerebbe che basti poco a far scendere i valori delle case. (Mantengo il condizionale perché ho molti dubbi sul fatto che diminuiscano per delle semplici voci). Non ho possibilità di verifica, ma non credo che sia fondamentale appurarlo. Piuttosto, ciò che è primario è che questa preoccupazione sia ricorrente.
Tuttavia, se in loco è comprensibile che ci si preoccupi del singolo appartamento, ad una scala nazionale bisognerebbe porsi delle questioni più complesse e considerare che oltre ai probabili danni materiali (qui non considero i pur ingenti costi umani possibili), c’è da mettere in bilancio il blocco pressoché totale e a tempo indeterminato di buona parte delle attività economiche e produttive di un’importante parte del Paese.
Per completare l’abbozzo di questi cerchi concentrici, ad un livello ancora più ampio vanno posti gli organismi internazionali e le grandi agenzie di riassicurazione. Queste ultime, in particolare, valutano e quantificano il rischio del rischio, come ad esempio Munich Re.
Facendo riferimento a questa scala più grande, qualche giorno fa l’Economist ha pubblicato un articolo sul costo dei disastri naturali. Io l’ho letto ieri (14 gennaio 2012) nel rimando che ne ha fatto Il Post (qui):

Il costo dei disastri naturali
Calamità come terremoti e alluvioni uccidono meno persone nel mondo,
ma il loro impatto sull’economia mondiale è sempre più alto
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I disastri naturali stanno diventando meno mortali, nel mondo, ma più costosi per l’economia. Secondo l’Economist, cinque dei dieci disastri naturali che hanno avuto il maggior costo economico negli ultimi trent’anni sono avvenuti tra il 2008 e oggi. Questo cambiamento, spiega il settimanale britannico, ci dice qualcosa sull’organizzazione dell’economia mondiale, sempre più concentrata e interconnessa, sugli spostamenti della popolazione, dalle campagne ai centri urbani, e sui modi con cui è stata gestita la prevenzione dei disastri naturali.
Il 2011 è stato l’anno delle alluvioni in Thailandia, Cina e Australia, dello tsunami in Giappone e dei terremoti in Nuova Zelanda. Il collegamento tra il cambiamento climatico indotto dall’uomo e la frequenza di alcuni disastri, in particolare le tempeste tropicali, è ancora oggetto di discussione (l’Economist cita uno studio dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, che si è detto poco convinto della connessione tra il cambiamento climatico e la frequenza dei cicloni tropicali), ma di sicuro le comunità umane stanno ottenendo alcuni successi nel rendere le catastrofi naturali meno mortali. Ci sono stati miglioramenti sensibili nei sistemi di previsione anticipata e di allarme per gli tsunami, nell’informazione sui piani di evacuazione, nella costruzione di edifici antisismici.
I paesi dove i disastri naturali hanno ucciso più persone sono anche quelli più arretrati e isolati, che non hanno fatto nulla o quasi per la prevenzione: tra questi, il devastante terremoto di Haiti del 2010, i cui numeri non sono stati definiti con chiarezza due anni dopo il disastro ma che ha sicuramente ucciso diverse decine di migliaia di persone. Ma vista anche la crescita demografica della popolazione terrestre, che ha superato da poco i sette miliardi, il numero dei morti a causa delle calamità naturali è sicuramente in calo.
I costi economici, al contrario, sono in crescita. Questo è dovuto, scrive l’Economist, al fatto che «una parte crescente della popolazione mondiale e dell’attività economica si va concentrando in luoghi a rischio di calamità naturali: coste tropicali e delta dei fiumi, vicino alle foreste e lungo faglie a rischio sismico». Un esempio esaminato dal settimanale è quello della Thailandia.
Dopo le ultime alluvioni molto serie, nel 1983 e nel 1995, i distretti industriali più orientati all’esportazione si sono concentrati intorno a Bangkok e nelle pianure alluvionali più a nord, lungo il fiume Chao Phraya, che fino ad allora erano coltivate a risaia proprio perché erano regolarmente esposte ad alluvioni. Nelle ultime alluvioni, le acque hanno superato le dighe di sei metri intorno al distretto industriale di Rojana, allagando le fabbriche di importanti produttori di automobili e materiale tecnologico, tra cui Honda e Western Digital, un’azienda di dischi rigidi. I prezzi dei dischi rigidi hanno subito un aumento in tutto il mondo, mentre le alluvioni hanno causato complessivamente una diminuzione della produzione industriale stimata da J.P. Morgan in un 2,5 per cento, con un costo per il paese di circa 40 miliardi di dollari, il più costoso della storia della Thailandia.
L’evoluzione urbanistica e la crescita economica nei paesi in via di sviluppo rendono più probabili disastri con un grande impatto economico: secondo uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico pubblicato nel 2007, nel 2070 sette dei dieci maggiori centri urbani del mondo esposti al rischio di inondazioni si troveranno nei paesi in via di sviluppo, mentre nel 2005 non ce n’era nessuno. Il processo sembra inevitabile, dice l’Economist, e i paesi del mondo dovranno prendere le contromisure adeguate:
Da una parte, l’urbanizzazione toglie alle città le difese naturali contro i disastri ed espone più persone alla perdita della vita o delle proprietà in caso di terremoto o di ciclone. Dall’altra parte, l’urbanizzazione arricchisce le persone povere. La densità e le infrastrutture delle città rendono le persone più produttive e più capaci di permettersi le misure per mantenersi sicure. Le misure per mitigare l’impatto dei disastri non devono scoraggiare la gente dall’ammassarsi nelle vulnerabili città, ma piuttosto devono essere un incentivo per le città e i loro abitanti a proteggersi ancora meglio.
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AGGIORNAMENTO
: A proposito di valutazioni (economiche) del rischio, nel 2010 WRN (Willis Research Network) – una società di Willis Group Holdings, uno dei broker assicurativi mondiali – effettuò una “previsione” delle conseguenze di un’eruzione vesuviana, la quale «potrebbe causare 8.000 vittime, 13.000 feriti gravi e danni totali per oltre 24 miliardi di dollari». In tale studio, «il Vesuvio appare al primo posto nell’elenco dei 10 vulcani più pericolosi del nostro continente». (Mount Vesuvius eruption could cause 21,000 casualties. Volcano Ranks Number One on Willis List of Europe’s 10 Most Dangerous, in «WRN News», 15 aprile 2010, QUI; un estratto in italiano è QUI).
Il paper originale dello studio – effettuato da ricercatori delle Università di Cambridge e “Federico II” di Napoli, oltre che dalla società Willis Re – è disponibile online in pdf: “Insurance Risks From Volcanic Eruptions in Europe” (questo studio prende in considerazione i 10 vulcani europei (non tutti in Europa) intorno ai quali vivono più di 10mila persone e che hanno un valore economico esposto al rischio di complessivi 85 miliardi di dollari. «Over 87% of this property value in concentrated in the Neapolitan region, around Vesuvius and Campi Flegrei»).

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L’emergenza “conviene” (a qualcuno).
«L’Italia viene continuamente rattoppata perché c’è anche chi lucra e specula sull’emergenza. Che verificandosi a ripetizione, garantisce guadagni vita natural durante» (Guglielmo Pepe). Ecco perché bisognerebbe bandire locuzioni tipo “cultura dell’emergenza”. (L’articolo è anche tra i commenti qui sotto).

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AGGIORNAMENTO del 27 marzo 2014:
Il 27 marzo 2014 il “Corriere della Sera” ha pubblicato una galleria fotografica sulle 10 città più a rischio di catastrofi naturali del mondo, elenco stilato dalla compagnia riassicurativa “Swiss Re” nel 2013 con il paper “Mind the risk. A global ranking of cities under threat from natural disasters” (pdf). La notizia è ripresa dal sito web del “Guardian”.

14 thoughts on “Il costo dei disastri naturali

  1. Molti opinionisti spiegano la tragedia dell’isola del Giglio con due o tre concetti essenziali. Sebbene l’affondamento della Costa Concordia non sia un “disastro naturale” (ma questo non esclude che possa causare un disastro ambientale) (e, comunque, generalmente io faccio fatica a utilizzare l’espressione “disastro naturale”), le analisi che si leggono oggi sui giornali riguardano spesso ragionamenti economici.
    L’affondamento sarebbe dovuto innanzitutto alla leggerezza e all’avventatezza del passaggio sottocosta per regalare uno “spettacolo” ai turisti e agli abitanti dell’isola (succede ogni settimana anche al largo della Penisola Sorrentina).
    In secondo luogo – e passiamo ad aspetti più sostanziali – per la sfrenata corsa al profitto che, in terzo luogo, porta alla costruzione di navi sempre più grandi: dei veri e propri kolossal.
    Va da sé che queste logiche di volumetrie sempre più grandi e di guadagni marginali sempre più alti si ritrovano tutte accomunate da una generale sottostima degli standard di sicurezza, ovvero dei costi e – probabilmente – della preparazione dell’equipaggio.
    Di seguito elenco gli articoli più illuminanti su questo fronte delle analisi.

    * Vittorio Emiliani, Quelle grandi navi troppo insicure, “L’Unità”, 15 gennaio 2012: QUI o QUI;
    * Vittorio Emiliani, I colpevoli? La leggerezza e i profitti, “La Nuova Venezia”, 15 gennaio 2012: QUI;
    * Robert Wright, Concordia disaster revives question of ship size, “Financial Times”, 15 gennaio 2012: QUI;
    * Salvatore Settis, Nuove regole per quei colossi, “Repubblica”, 16 gennaio 2012: QUI o QUI;

  2. “Corriere della Sera”, venerdì 18 maggio 2012, http://www.assinews.it/articolo_stampa_oggi.aspx?art_id=9312

    UNA CALAMITA’ DISTRUGGE LA CASA? DA OGGI LO STATO NON PAGA I DANNI
    Giovanna Cavalli
    ROMA — La calamità naturale sarà a carico del cittadino. In caso di terremoto, alluvione, tsunami e qualsivoglia altra catastrofe, non sarà più lo Stato a pagare i danni. A ricostruire l’edificio crollato o pieno di crepe, casa o azienda che sia, dovrà provvedere il proprietario. A sue spese. O stipulando, previdente, una relativa polizza di assicurazione.
    La novità, enunciata chiaramente, si trova nel decreto legge n.59 sulla riforma della Protezione Civile pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale. In cui si afferma che «al fine di consentire l’avvio di un regime assicurativo per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati a qualunque uso destinati, possono essere estese tutte le polizze assicurative contro qualsiasi tipo di fabbricato appartenente a privati». E questo per poter «garantire adeguati, tempestivi ed uniformi livelli di soddisfacimento delle esigenze di riparazione e ricostruzione». Cosa che lo Stato non può più permettersi per cronica carenza di fondi.
    La normativa non ha effetto immediato: il decreto legge prevede infatti «un regime transitorio anche a fini sperimentali». Entro 90 giorni dovrà essere emanato un regolamento che stabilisca modalità a termini per l’avvio del regime assicurativo. Ed è poi probabile che i tempi si allunghino. O che si trovino dei correttivi. Ma la tendenza è quella.
    Confermata dalle parole di Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile: «Quella sull’Aquila è stata l’ultima azione di intervento sulla popolazione» ha detto ieri ai Giovani imprenditori di Confindustria. «Purtroppo per il futuro dovremo pensare alle assicurazioni perché lo Stato non è più in grado di fare investimenti sulle calamità: gli aquilani sono stati gli ultimi a ricevere assistenza». Su questa linea procede anche la norma che riduce la durata dello stato di emergenza, ossia del periodo in cui lo Stato si accolla le spese: 60 giorni, con un’unica proroga di altri 40. Fine delle emergenze pluriennali.
    Per adesso l’assicurazione sarà soltanto di tipo volontario (con agevolazioni fiscali). E già questo principio potrebbe porre dei problemi giuridici in quanto sancisce la disparità tra cittadini che vivono in zone a rischio e quelli che hanno la fortuna di abitare in aree sismiche o soggette a pericoli idrogeologici. Senza contare che le compagnie di assicurazioni, nel primo caso, pretenderebbero premi molto costosi. La soluzione potrebbe essere rendere l’assicurazione obbligatoria per tutti. Con un costo calcolato in circa 100 euro per abitazione.
    Secondo Adolfo Bertani, presidente del Cineas (Consorzio universitario specializzato nella cultura del rischio), questa «è una svolta epocale perché si introduce anche in Italia la responsabilità diretta del cittadino nella tutela dei propri beni e di una nuova cultura di rispetto del territorio. Si passa da welfare state alla welfare community»
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  3. «Eddyburg», 29 maggio 2012, http://eddyburg.it/article/view/19070/

    Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali
    I danni naturali sono aggravati pesantemente dall’incuria colpevole degli uomini. Alcuni dati significativi
    di Silvio Casucci e Paolo Liberatore

    Il recentissimo terremoto che ha colpito l’Emilia rende ancora una volta evidente il fatto che il nostro Paese è costretto ogni anno a sopportare perdite di vite umane ed enormi costi a causa dei disastri naturali; molti di questi costi, peraltro, potrebbero essere evitati, se si seguissero con maggiore attenzione le più elementari regole antisismiche.
    Per offrire un contributo al dibattito abbiamo provato a effettuare una stima economica dei costi che in media ogni anno il nostro Paese è chiamato a pagare a causa di eventi naturali disastrosi. L’analisi condotta in questa sede si concentra in particolare sulle frane, sulle alluvioni e sui terremoti; per effettuare una quantificazione degli effetti dannosi che ne derivano sono stati considerati sia gli impatti sulla salute dell’uomo (morti e feriti) che quelli sulle cose (distruzione di strutture e infrastrutture).

    I costi associati al dissesto idrogeologico: frane e alluvioni
    Frane e alluvioni (piene) sono fenomeni naturali particolarmente frequenti in Italia e costituiscono oggi, con i terremoti, i principali fattori di rischio di origine naturale per persone e cose; le cause principali di questo fenomeno sono da ricercarsi soprattutto nelle caratteristiche geologiche e geomorfologiche del territorio italiano, cui si aggiungono alcune particolari condizioni climatiche (alternarsi rapido tra periodi di siccità e precipitazioni intense), le dinamiche idrauliche e di versante dei bacini idrografici, e (per le frane) alcune attività antropiche.
    Dalla classificazione messa a punto dal Ministero dell’Ambiente, di concerto con gli altri Enti istituzionalmente competenti (ANPA, ora ISPRA; Dipartimento dei Servizi tecnici nazionali; Dipartimento della Protezione civile), risulta che il 21% dei comuni ha nel proprio territorio amministrativo aree franabili, il 16% aree alluvionabili e il 32% aree a dissesto misto; più in generale, il 7% circa della superficie territoriale nazionale è classificata a rischio idrogeologico potenziale più elevato.
    Per effettuare una valutazione dei danni alla salute dell’uomo si può fare riferimento prioritario ai dati elaborati dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del CNR, che negli anni recenti ha dedicato specifica attenzione alla ricostruzione delle serie storiche di frane e alluvioni e alla rilevazione dei danni alle persone. In particolare, in un recente studio pubblicato sul Natural Hazard and Earth System Sciences (Salvati, P., Bianchi, C., Rossi, M., Guzzetti, F., (IRPI-CNR), “Societal landslide and flood risk in Italy”, 2010: pdf) vengono fornite alcune preziose informazioni di dettaglio sulle frane e le alluvioni registrate sul territorio italiano che hanno generato danni all’uomo (morti, dispersi o feriti). Da questo studio risulta che nel corso degli ultimi 60 anni circa (1950-2008) sono stati rilevati in Italia rispettivamente 967 eventi franosi e 613 eventi alluvionali che hanno causato danni alla popolazione; l’impatto medio degli eventi considerati in termini di social risk è molto rilevante: in media, una frana ha causato oltre 4 fatalities (morti e dispersi), mentre un’alluvione circa 2; i valori salgono rispettivamente a oltre 6 e oltre 4, se si considerano invece le casualities (fatalities + feriti).

    Il dato utilizzato in questa sede per effettuare la valutazione monetaria degli effetti prodotti dai fenomeni idrogeologici sulla salute dell’uomo si basa sul numero medio di fatalities per singolo anno (circa 70 per le frane, oltre 20 per le alluvioni) e al numero medio di feriti per singolo anno (pari, rispettivamente, a 34 e a 25 unità). Facendo riferimento ai parametri monetari generalmente utilizzati in questo tipo di valutazioni, relativi al valore di una vita umana perduta (VOSL – Value of statistical life, pari a 1,5 milioni di euro) e di un periodo medio di malattia (DALY – Disability adjusted life year. Si assume qui un periodo medio di malattia pari a due mesi, per un valore unitario pari a 5.800 euro circa euro), il danno alla salute causato in media in Italia da frane e alluvioni è quantificabile, rispettivamente, in circa 104,5 milioni di euro/anno e in 31,0 milioni di euro/anno, per un totale di circa 135,5 milioni di euro/anno.

    Per quel che riguarda invece la valutazione dei danni alle cose (strutture ed infrastrutture) associati a frane e alluvioni, i dati disponibili in letteratura sono invece assai più frammentari e imprecisi. Una prima indicazione generica, già citata all’inizio del presente paragrafo, viene fornita dal sito istituzionale dell’ISPRA, secondo il quale frane e alluvioni, considerate insieme, hanno generato costi economici quantificabili in circa 30 miliardi di euro in 20 anni; da questo dato è immediato ricavare una prima stima del “danno medio annuo” provocato da tali fenomeni, ovviamente del tutto orientativa, pari a 1,5 miliardi di euro/anno. Sono peraltro disponibili in letteratura dati relativi ad un arco temporale più lungo. In particolare, in un recente lavoro realizzato dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG) in collaborazione con il Cresme (Consiglio Nazionale dei Geologi, Cresme, Terra e sviluppo. Decalogo della Terra 2010 – Rapporto sullo stato del territorio italiano, Roma, 2010) viene ricostruita la dinamica dei costi del dissesto idrogeologico in Italia tra il 1944 e il 2009, basato sull’elaborazione di precedenti stime del Servizio Geologico Nazionale e del Ministero dell’Ambiente. Secondo lo Studio, in particolare il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra ad oggi è stimabile in circa 52 miliardi di euro. Mediamente, si tratta di circa 800 milioni di euro all’anno, una cifra che nell’ultimo ventennio è peraltro aumentata, assestandosi intorno al miliardo e 200 milioni annui.

    È a questo valore (1.200 milioni/anno), più basso di quello indicato da ISPRA, che – per cautela – si ritiene opportuno fare qui riferimento come indicatore complessivo. È importante specificare, peraltro, come nell’ambito del rischio idrogeologico, per incompletezza dei dati, non abbiamo considerato i danni generati da fenomeni meno diffusi quali subsidenza e sinkholes (voragini catastrofiche di forma sub-circolare, con diametro e profondità variabili da pochi metri a centinaia di metri, che si aprono rapidamente nei terreni, nell’arco di poche ore).

    I costi associati agli eventi sismici
    L’elevato rischio sismico che caratterizza l’Italia è legato alla posizione della nostra Penisola, situata lungo la zona di convergenza tra la zolla eurasiatica e quella africana e dunque sottoposta a continue spinte compressive e ad accavallamenti; anche la storia recente mostra come la frequenza e – soprattutto – l’intensità dei terremoti che si registrano sul territorio italiano siano in grado di generare danni gravi ed estesi, associati a elevatissimi costi socio-economici. Il sito istituzionale della Protezione Civile fornisce alcuni dati significativi: in 2.500 anni, sul territorio italiano si sono verificati oltre 30.000 terremoti, di cui 560 di intensità e magnitudo rilevanti (oltre l’ottavo grado della scala Mercalli); solo nel secolo scorso (1900-2000) sono stati registrati 7 terremoti con effetti classificabili tra il decimo e l’undicesimo grado della scala Mercalli; ed è nota, a inizio del XXI secolo, la gravità dell’evento sismico che ha colpito il territorio aquilano nell’aprile 2009, con oltre 300 morti e danni ingentissimi ad abitazioni, infrastrutture e, più in generale, all’intero sistema economico e sociale della provincia.
    Per la valutazione dei danni alla salute dell’uomo associati agli eventi sismici, si precisa innanzi tutto come l’operazione di stima del “numero medio annuo di decessi per terremoto” sul territorio italiano nella storia recente risulti particolarmente rischiosa; mentre, infatti, frane e alluvioni sono fenomeni relativamente costanti e regolari nel tempo, sia in termini di frequenza che di intensità, per i terremoti le stime variano notevolmente a seconda della serie storica scelta come riferimento.

    Dal 1860 sino al 2010, infatti, sono stati rilevati in Italia almeno 43 terremoti che hanno causato perdite di vite umane, per un totale di oltre 164.000 vittime in circa 150 anni: ne deriva una media, sui 150 anni, pari a oltre 1.000 morti/anno. Tuttavia, ben 150.000 di tali decessi (oltre il 90%) sono stati registrati in occasione di due soli terremoti: quello cioè che sconvolse le aree di Messina e Reggio Calabria nel 1907 provocando 120.000 vittime, e quello che, dopo soli 8 anni, rase al suolo la zona di Avezzano, in Abruzzo, provocando il decesso di 30.000 persone circa. Di conseguenza, a seconda che il periodo considerato come “campione” contenga o meno gli anni 1907 e 1915, il parametro relativo al numero medio di morti anno cambia di oltre un ordine di grandezza.

    Per motivi sia di cautela che di coerenza metodologica con i valori proposti per frane e alluvioni, si ritiene opportuno fare qui riferimento al periodo 1950-2009, senza dunque considerare i due valori outlier ora indicati; nei 59 anni così considerati, sono stati registrati 15 terremoti con decessi, per un totale di 4.665 decessi (in media, dunque, circa 79 l’anno). Senza considerare i feriti (ovviamente molto numerosi, per i quali tuttavia non si dispone di informazioni affidabili) e facendo riferimento al valore del VOSL già applicato per frane e alluvioni, si perviene così ad una stima del danno medio annuo alla salute dell’uomo associato al rischio sismico in Italia pari a 118,6 milioni di euro; non considerando i feriti, si tratta ovviamente di una stima significativamente approssimata per difetto.

    Per ciò che riguarda invece la valutazione dei danni alle cose (strutture ed infrastrutture) associati ai terremoti, un dato di riferimento autorevole è ricavabile da un recente approfondimento sul rischio sismico redatto direttamente dal Dipartimento della Protezione Civile (settembre 2010). In particolare, nel documento si specifica come “[…]I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro [a prezzi 2005], che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. […]”. Attualizzando tale valore, si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro/anno.

    Un quadro di sintesi
    Nella tabella seguente sono state sintetizzate le stime relative ai costi associati a disastri naturali che la collettività nazionale ha sopportato in media ogni anno a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Come si può facilmente osservare si tratta di un costo enorme, superiore ai 5 miliardi di euro l’anno. Considerando che si tratta di una stima assolutamente prudenziale, che non tiene peraltro conto dei danni temporanei alle attività economiche, si capisce quante risorse (pubbliche e private) si potrebbero risparmiare nel nostro Paese se le abitazioni e gli edifici destinati alle attività produttive ed ai servizi fossero costruiti rispettando con maggiore attenzione le norme antisismiche ovvero evitando le aree a rischio potenziale idrogeologico più elevato
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    Nell’allegato il testo con le tabelle: QUI.

  4. Stamattina (31 maggio 2012) Gian Antonio Stella scrive quali sono le “cose da fare” e quali gli “errori da evitare” a proposito di terremoti: “In quarant’anni danni per 147 miliardi di euro. Ne sarebbero bastati 25 per la sicurezza“. Cita l’analisi pubblicata ieri su “Eddyburg” sui costi dei disastri naturali e aggiunge che la causa principale è la mancanza di memoria: “È come se decine di disastri non ci avessero insegnato niente” (un tema che ha affrontato più volte).
    La più grave smemoratezza è quella istituzionale e, tra i vari esempi, ricorda “La polemica contro Bassolino del sindaco di San Sebastiano al Vesuvio furente perché il «Piano casa» della destra con le sue abolizioni di lacci e lacciuoli non era esteso alla «zona rossa» sotto il vulcano per la quale invocava «almeno di realizzare i sottotetti a copertura degli immobili esistenti»” (il Piano, per la verità, non era della destra ma della sinistra; poi sarebbe arrivato anche quello della nuova giunta berlusconiana: assolutamente immondo).

    Le parole del sindaco Pino Capasso sono del 3 aprile 2009:
    «Per i 13 Comuni dell’area protetta [questi 13 sono tra i 18 della “zona rossa”, ma il sindaco preferisce non dirlo] sembrerebbe profilarsi la preclusione di qualsivoglia attività edilizia. I tanto attesi effetti di una possibile ripresa economica potrebbero non investire l’area vesuviana e quell’imprenditoria che con molta fatica resiste nella nostra già difficile area. A questo proposito chiedo al presidente della Regione di riflettere sull’esigenza di realizzare i sottotetti a copertura degli immobili esistenti ed assentiti. Questa iniziativa conferirebbe anche un aspetto estetico più gradevole alla modesta architettura vesuviana oltre a risultare un valido ed efficace deterrente contro sopraelevazioni e superfetazioni che spesso deturpano i fabbricati».

    Ecco le reazioni principali:
    «Da quattro anni Assoimpero combatte la battaglia per i sottotetti. La proposta è ottima e condivisibile, speriamo che non sia figlia di logiche propagandistiche» (Ciro Di Dato, presidente dell’associazione degli imprenditori vesuviani)

    «La questione dei sottotetti va valutata attentamente caso per caso. Il rischio vulcanico della nostra area è legato alla vulnerabilità dell’area stessa, politiche di incremento della densità abitativa aumenterebbero tale vulnerabilità» (Ugo Leone, presidente del Parco nazionale del Vesuvio)

    «La proposta dei sottotetti è preoccupante in quanto rischia di attrarre nuove presenze nell’area vesuviana e va contro le politiche di alleggerimento della presenza umana in questa area. Tutto ciò contrasta anche con le iniziative della Regione da anni impegnata con una serie di incentivi a sostenere piani di trasferimento» (Michele Buonuomo, presidente Lagambiente Campania)

    «Queste iniziative non sono sostenute da alcun processo di pianificazione del territorio» (Luigi De Falco, segretario regionale dell’associazione Italia Nostra)

  5. «Corriere della Sera», 25 maggio 2013, QUI

    Lettera-appello del sindaco: finiti i fondi per la ricostruzione
    «NON FATE MORIRE L’AQUILA, SERVONO 11 MILIARDI»
    Cialente: con 20mila sfollati sulle spalle, ho restituito la fascia da sindaco al presidente Napolitano e ammainato il tricolore. A quattro anni dal terremoto che ha colpito L’Aquila, il sindaco Massimo Cialente lancia il suo appello perché venga finanziata la ricostruzione. «Le risorse si possono reperire con il meccanismo del mutuo venticinquennale con la Cassa depositi e prestiti: 60 milioni l’anno per ciascun miliardo. Si può fare».
    di Massimo Cialente, sindaco dell’Aquila

    Caro Direttore, le scrivo spinto dal terrore che L’Aquila sia destinata a morire, tra l’indifferenza politica e la malcelata insopportazione nei nostri confronti che si respira, ultimamente, in tutte le istituzioni dello Stato. A quattro anni dal terremoto che ha cancellato i luoghi della nostra identità proiettandoci nel ricordo del passato nella speranza di sopravvivere al presente, ci ritroviamo senza fondi per la ricostruzione. Non è finanziato il futuro dell’Aquila. Il cantiere più grande d’Europa continua a reggersi sulle sue impalcature mettendo gli operai in cassa integrazione e lasciando le famiglie, a migliaia, parcheggiate nelle case di Berlusconi o negli alberghi. Commissariati prima, abbandonati ora. Ci servono sette miliardi ancora per la Città dell’Aquila e quattro per i 56 Comuni del cratere sismico. Non tutti insieme ma diluiti nei prossimi anni, quelli sanciti nel cronoprogramma della ricostruzione, coraggioso documento approvato dal consiglio comunale che dice agli aquilani quando potranno rientrare nelle loro case, da qui al 2018.
    20MILA SFOLLATI – Sono risorse che possono essere reperite con il meccanismo del mutuo venticinquennale con la Cassa depositi e prestiti: 60 milioni l’anno per ciascun miliardo. Si può fare. Così com’è stato fatto dal governo Monti per i nostri fratelli dell’Emilia, ai quali sono stati erogati 10 miliardi. E mentre io oggi, con 20mila sfollati ancora sulle spalle, ho restituito la fascia da sindaco al presidente della Repubblica e ammainato il tricolore nella vana speranza che qualcuno si degni di considerare il peso della nostra tragedia, Vasco Errani può affermare, con sacrosanto orgoglio, che nelle sue contrade potrà essere ricostruito tutto, sino all’ultimo euro. Con i finanziamenti finora ricevuti, abbiamo riparato 15mila unità immobiliari delle periferie, 5 mila delle quali, molte crollate o dovute abbattere, hanno ancora i cantieri in corso. Abbiamo speso 2 miliardi e 200 mila euro. La nostra, dati alla mano, è la ricostruzione che sta costando meno al metro quadro.
    RICOSTRUZIONE – Con gli ultimi finanziamenti previsti, 980 milioni di competenza per il 2013/2015, ricostruiremo altre 4mila unità immobiliari, le più complesse, cominciando ad aggredire una minuscola porzione del centro storico, con i suoi 400 ettari, tra i più estesi d’Italia. E poi? Cosa ne sarà del capoluogo d’Abruzzo, seconda città d’Italia per numero di edifici vincolati dal ministero dei Beni culturali, testimonianza autentica di una città di fondazione medievale, dove la cultura si sposa con la natura e la qualità della vita è sempre stata impagabile? Capirà il Paese che la ricostruzione dell’Aquila rientra tra le priorità nazionali? Che se la ricostruzione dell’Aquila riuscisse a partire con quella dell’Emilia, avremmo un effetto positivo sul Pil dando ossigeno ad aziende e imprese? Abbiamo avuto tanta pazienza. Oggi siamo allo sbando. Senza casa, senza lavoro, senza prospettive per il futuro. Sospesi.
    APPELLO – Tramite il suo giornale, sereno e oggettivo cronista in questi anni della nostra tragedia, rivolgo il mio appello a tutti gli italiani, agli intellettuali, ai mille storici dell’arte che tre settimane fa si sono dati appuntamento tra le nostre macerie, alla classe dirigente del Paese, al Parlamento e al governo: non abbandonate L’Aquila e il suo territorio. Non meritiamo di essere lasciati soli, per la dignità che abbiamo mostrato, il coraggio, gli sforzi che abbiamo compiuto e stiamo compiendo, schiacciati in una vicenda politica più grande di noi che, sul nostro dolore, ha consumato i suoi riti, le sue fortune, le sue polemiche e i suoi scontri. Se necessario, chiederei anche al Paese di accettare l’idea di una piccola tassa di scopo. Ricostruire L’Aquila, oltre che dovere per l’Italia, dovrebbe essere motivo di orgoglio nazionale di fronte al mondo intero. L’Aquila non può e non deve morire
    .

  6. «INGV Terremoti», 12 luglio 2013, QUI

    LA PREVENZIONE PAGA
    di Carlo Meletti (Centro di Pericolosità Sismica INGV)

    Appena avvertita la scossa di terremoto di magnitudo 5.2 che venerdì 21 giugno ha colpito la Lunigiana orientale, il primo pensiero di chi si occupa professionalmente di terremoti è stato quello di un disastro che poteva aver provocato molti crolli e quindi probabilmente anche vittime. La magnitudo 5.2 di per sé non è una magnitudo elevatissima (in Italia si sono avuti storicamente eventi che hanno superato magnitudo 7, ultimi tra questi il terremoto di Reggio Calabria-Messina del 1908 e quello di Avezzano del 1915) ed è stata frequentemente rilevata: dal 1900 a oggi sono oltre 150 le scosse di magnitudo pari o uguale a 5.2 verificatesi nel territorio nazionale.

    Abbiamo però un record negativo nel nostro paese: una elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio, vale a dire una scarsa capacità di resistere ai terremoti. Le ragioni di questa fragilità sono molteplici: sicuramente un’età elevata delle nostre case, probabilmente gli effetti degli anni di boom economico durante i quali si è costruito senza guardare troppo per il sottile, sicuramente una scarsa tradizione nella progettazione di edifici con criteri antisismici. Fino agli anni ’80 una zona veniva dichiarata sismica solo dopo che vi si era verificato un forte terremoto e conseguentemente diventava obbligatorio adottare le norme antisismiche del momento nella progettazione del nuovo, ma nessun vincolo particolare era imposto sugli edifici esistenti.


    Data di prima classificazione sismica dei comuni italiani, dal 1909 al 1984

    Se consideriamo che oltre l’80% delle abitazioni in Italia è stato costruito prima del 1981 (periodo in cui venivano promulgate norme antisismiche più moderne ed efficaci di quelle precedenti), si capisce che il numero di abitazioni private progettate secondo tali norme è molto ristretto (stima basata sui dati del Censimento ISTAT 2001).


    Numero di abitazioni costruite in Italia per periodo.

    Senza voler entrare ora nella questione che oltre a progettare bene bisogna costruire bene ed eseguire una corretta manutenzione dell’edificio, si capiscono alcuni dei motivi per cui il nostro patrimonio edilizio sia così fragile. La dimostrazione sta nella figura che segue.


    Località danneggiate dopo il 1950 per eventi con magnitudo minore di 5. I colori si riferiscono alle intensità MCS: nero = 5.5-6; blu = 6.5-7; rosso = 7.5-8.

    Per eventi di magnitudo minore di 5 avvenuti dal 1950 a oggi si sono verificati danni in molte località, in tutte le regioni d’Italia, tranne la Sardegna. Questa è la situazione (tragica) del nostro paese e da qui bisogna partire. Ecco perché c’era il timore molto forte che anche il terremoto del 21 giugno potesse avere prodotto danni e vittime.

    A quanto è invece dato possibile constatare in questo momento (vale a dire quando la sequenza sismica è ancora in atto e altre scosse importanti potrebbero ancora verificarsi, andando a modificare in peggio la situazione), sembrerebbe che gli effetti di questo terremoto siano molto minori di quelli che ci si poteva immaginare. Da fonti giornalistiche si parla di circa 500 case inagibili. Sia chiaro che per il singolo cittadino che ha avuto la casa lesionata e resa inagibile non esiste tragedia peggiore, ma se si guarda ai grandi numeri sembra di poter dire che è andata relativamente bene, sicuramente meglio che in altri casi analoghi. A titolo di esempio si ricorda che il terremoto che il 24 novembre 2004 ha colpito l’area di Salò, di magnitudo comparabile con quella del 21 giugno, ha prodotto danni per 200 milioni di euro e reso inagibili oltre 3700 abitazioni. Certo quell’area del Lago di Garda ha una densità abitativa diversa da quella della Lunigiana, ma in ogni caso il danneggiamento del 2004 è di almeno un ordine di grandezza superiore a quello che sembra essersi prodotto nei comuni della Lunigiana orientale.

    Quale può essere allora l’interpretazione del danneggiamento decisamente minore di quello che era presumibile attendersi?

    Una ragione va sicuramente ricercata nel fatto che questa regione subisce terremoti di media magnitudo frequentemente. Se consideriamo i soli eventi con magnitudo maggiore di 5 verificatisi nelle province di Massa e di Lucca, sono almeno 15 i terremoti riportati dal catalogo storico CPTI11, a partire dal 1481, prima della scossa del 21 giugno. Per la sola località di Fivizzano le informazioni macrosismiche disponibili dicono che almeno 10 volte si è raggiunta la soglia del danno. E’ quindi legittimo pensare che le ricostruzioni e le riparazioni succedutesi nel tempo abbiamo portato ad una riduzione della vulnerabilità degli edifici di questa area. Non va però scordata l’azione di riduzione del rischio sismico intrapresa negli anni dalla Regione Toscana, che oggi sembra dare i primi frutti. Si tratta di una storia che merita di essere raccontata.

    Il terremoto dell’Irpinia-Basilicata del 1980 colse tutte le amministrazioni regionali (che erano nate da soli 10 anni) impreparate rispetto alle tematiche del rischio sismico. Molte Regioni iniziarono allora un percorso per l’istituzione di appositi uffici e la creazione di professionalità dedicate a questo tema. Ogni Regione si mosse in ordine sparso; la Toscana in particolare ha sempre mostrato una sensibilità ed una attenzione particolare per il rischio sismico sul proprio territorio. Se si provasse a fare l’elenco di tutte le iniziative realizzate in ormai più di 30 anni, impiegheremmo molto tempo: iniziative di studio, di ricerca, di intervento sugli edifici pubblici e privati, di educazione, di divulgazione e quant’altro. Non si è trattato solo di un’operazione culturale importante, ma anche di investimenti economici significativi. Ma proprio perché si è trattato di un’operazione anche e soprattutto culturale, merita di ricordare quanto avvenne dopo il terremoto di Fivizzano del 1995.

    Questa figura riporta uno dei grafici che accompagnavano la relazione scientifica firmata da ricercatori del GNDT. Era la stima del rischio sismico in tutti i comuni toscani espresso come costo del primo danno atteso, vale a dire il costo per ripristinare gli edifici danneggiati dal primo terremoto che sarebbe avvenuto, stimato per vari valori medi di vulnerabilità. Si nota che la graduatoria era guidata da Casola in Lunigiana e da Fivizzano; in ogni caso i comuni di Lunigiana, Garfagnana e Media Valle del Serchio guidavano questa triste graduatoria. I finanziamenti, per quanto esigui rispetto al numero di edifici esistenti nell’area, furono sufficienti a incentivare molte famiglie a richiederli e a fare interventi nelle proprie abitazioni. La cifra erogata (20 milioni di lire per famiglia) permetteva di fare interventi per la messa in posa di catene che hanno la funzione di garantire il collegamento delle murature fra loro e tra i solai durante un terremoto e di fatto sono l’intervento con il miglior rapporto costo-benefici, in quanto incrementano sensibilmente il comportamento sismica dell’edificio.

    Non solo molte famiglie utilizzarono il finanziamento, ma si verificò un processo virtuoso grazie al quale diverse imprese medio-piccole della zona si dotarono di macchinari (per esempio microcarotieri) che agevolassero il loro compito e acquisirono in questo modo un know-how che ancora oggi possono utilizzare. Anche altre attività artigianali hanno beneficiato di questi investimenti, dal momento che le catene sono state realizzate dai fabbri della zona e i falegnami hanno costruito i tetti in legno. Insieme agli interventi sugli edifici, una serie di iniziative di informazione e aggiornamento tecnico hanno contribuito a modificare le abitudini costruttive dell’area andando verso una generalizzata riduzione del rischio sismico. A titolo di esempio si può citare l’abbandono della realizzazione di pesanti coperture degli edifici con cordoli in cemento armato che appesantiscono inutilmente, anzi peggiorano la resistenza degli edifici sotto l’azione sismica.

    Anche gli interventi sugli edifici pubblici e in particolare sulla messa in sicurezza sulle scuole hanno avuto un’attenzione adeguata, visto che tutte le scuole dell’area sono state adeguate o sostituite con nuovi edifici scolastici e la popolazione ha trovato ricovero nella notte del terremoto ed in quelle successive e persino gli esami di maturità si sono svolti regolarmente. E’ ancora presto per giungere a conclusioni definitive, ma sembra di poter dire che abbiamo la prova provata che gli interventi di prevenzione antisismica producono effetti positivi: è la prima volta, infatti, che un terremoto forte colpisce un’area nella quale sono stati fatti interventi preventivi, gli edifici che hanno usufruito di questi interventi di miglioramento antisismico paiono non avere subito danni e non possiamo non pensare che è anche grazie a questa politica seria di gestione e tutela del territorio e del costruito che lo scenario prodotto dal terremoto del 21 giugno sia risultato molto migliore di quanto fosse possibile immaginare.

    Il 10 ottobre 1995 una forte scossa di magnitudo 4.9 fu avvertita in gran parte della Toscana settentrionale e del Nord Italia. In 11 località si verificarono danni classificati tra il VI e il VII grado della scala MCS (Mercalli-Cancani-Sieberg). Finita la sequenza e il censimento dei danni, iniziò la fase di ricostruzione o di riparazioni degli edifici danneggiati. Nacque allora l’idea di fare qualcosa di più nella direzione della riduzione del rischi sismico e in particolare di finanziare i privati. Dalla sinergia tra Dipartimento della Protezione Civile (allora diretto dal prof. Franco Barberi), Regione Toscana (presidente allora era Vannino Chiti, responsabile del Servizio Sismico Regionale l’arch. Maurizio Ferrini) e il mondo della ricerca (in particolare in questa circostanza partecipò il Gruppo Nazionale per la Difesa dai Terremoti – GNDT – del CNR), fu realizzato uno studio sul rischio sismico dei comuni della Toscana. Il Dipartimento e la Regione Toscana misero a disposizione 4 miliardi di lire ciascuno da destinare al miglioramento antisismico degli edifici privati, attraverso un finanziamento a fondo perduto, da concentrare in tutti quei comuni che risultavano in testa nella graduatoria del rischio sismico.

    La Legge Regionale 56 del 30 luglio 1997 è la prima legge sulla prevenzione sismica in Italia: prevede per l’appunto finanziamenti per i privati, la realizzazione di indagini di microzonazione sismica, indagini sui materiali degli edifici scolastici, verifiche sismiche su edifici pubblici, rete sismica e geodetica, informazione alla popolazione ed alle scuole. Su queste attività dal 1997 la Regione Toscana investirà 8 miliardi.

  7. Pingback: Prevenzione e precauzione | Paesaggi vulcanici

  8. A proposito di valutazioni (economiche) del rischio, nel 2010 WRN (Willis Research Network) – una società di Willis Group Holdings, uno dei broker assicurativi mondiali – effettuò una “previsione” delle conseguenze di un’eruzione vesuviana, la quale «potrebbe causare 8.000 vittime, 13.000 feriti gravi e danni totali per oltre 24 miliardi di dollari». In tale studio, «il Vesuvio appare al primo posto nell’elenco dei 10 vulcani più pericolosi del nostro continente». Altre info: QUI (19 aprile 2010).

    L’articolo originale in inglese è questo:

    «WRN News», 15 aprile 2010, QUI

    MOUNT VESUVIUS ERUPTION COULD CAUSE 21,000 CASUALTIES
    Volcano Ranks Number One on Willis List of Europe’s 10 Most Dangerous.

    A major eruption of Italy’s Mount Vesuvius could result in 8,000 fatalities, 13,000 serious injuries and total economic losses of more than $24 billion, according to a new study supported by the Willis Research Network (WRN) that puts Vesuvius at the top of the list of Europe’s 10 most dangerous volcanoes.
    The WRN, funded by Willis Group Holdings (NYSE: WSH), the global insurance broker, is an industry-leading public-private partnership between Willis and many of the top scientific research institutions in the world.
    The WRN volcano risk ranking, which examines European volcanoes with potentially affected populations of greater than 10,000, was developed by researchers from the University of Cambridge, the University of Naples Federico II and Willis Re, Willis’ reinsurance broking arm.
    In the paper titled, “Insurance Risks From Volcanic Eruptions in Europe” [pdf], the researchers propose that the ranking be used as the basis for developing the first detailed insurance risk models for volcanoes in Europe and various European overseas territories. At present, no such models exist.
    The WRN team identified the 10 most dangerous European volcanoes based on the size of a potential eruption, the number of people potentially at risk, and the value of property in the area surrounding each volcano. The study found that, together, the 10 volcanoes could affect almost 2.1 million people with an aggregated exposed residential property value of US $85 billion. The Eyjafjallajökull volcano in Iceland that erupted yesterday was not on the list, but the Hekla volcano, Iceland’s most active, was ranked as the ninth most dangerous volcano in Europe.
    Vesuvius poses the greatest risk to life and property, the study found, because it has the highest exposed population (1.7 million people), the highest exposed residential property value (US $66.1 billion), and the greatest potential for a seriously damaging eruption among the top 10 volcanoes. The study noted that more than 87 percent of the aggregated exposed property value for the 10 volcanoes is concentrated in the Neapolitan region near Vesuvius and Campi Flegrei.
    The WRN European volcano risk ranking below shows the number of people living in the area that could be affected by 25 cm of ash fall in the assumed greatest eruption.
    It also shows the total residential property value exposed to severe damage or destruction in that eruption, taking into account the total number of dwellings within possible reach of pyroclastic flows or 25 cm ash fall and their full current reconstruction cost. While the Caribbean volcano of Soufrière Saint Vincent is not on European soil, it has been included in the top 10 due to the significant impact that an eruption would have on European territory.

    Volcano – Country – Affected population – Values of residences at risk (US $ billion)
    1. Vesuvius – Italy – 1,651,950 – 66.1
    2. Campi Flegrei – Italy – 144,144 – 7.8
    3. La Soufrière – Guadeloupe (France) – 94,037 – 3.8
    4. Etna – Italy – 70,819 – 2.8
    5. Agua de Pau – Azores (Portugal) – 34,307 – 1.4
    6. Soufrière Saint Vincent – Saint Vincent (Caribbean) – 24,493 – 1.0
    7. Furnas – Azores (Portugal) – 19,862 – 0.8
    8. Sete Cidades – Azores (Portugal) – 17,889 – 0.7
    9. Hekla – Iceland – 10,024 – 0.4
    10. Mt Pelée – Martinique (France) – 10,002 – 0.4

    Dr. Rashmin Gunasekera, a Catastrophe Risk Analyst at Willis Re and one of the authors of the paper, said, “There are significant numbers of highly active volcanoes in the wider European region, taking into account those in Iceland, the Spanish Canary Islands, the Portuguese Azores and the French islands of the Lesser Antilles. These are all major tourist destinations, and while property values drive our loss estimates, it should be noted that aviation, agriculture, motor and business interruption policies also will be affected.”
    WRN member Prof. Robin Spence, CURBE, University of Cambridge & CAR Ltd., and an author of the study, said, “Large explosive volcanic eruptions are rare events, but when they do occur, they have the potential to cause huge economic and human losses. In 2002, for example, rain combined with ash fall alone caused economic losses of around US $960 million after the eruption of Mount Etna in Sicily. In principle, however volcanic eruption is an insurable risk and our study concludes that the time has come for the development of an insurance risk model for European volcanoes to identify the scale of potential future impacts.”
    The WRN team was made up of Dr. Gunasekera, Prof. Robin Spence and Prof. Giulio Zuccaro, Scientific Director, Plinius Centre, University of Naples Federico II. Volcanic risk affects major metropolitan areas worldwide, including Tokyo (Mt. Fuji), Mexico City (Popocatépetl) and Auckland (Auckland Field). WRN officials said they expect their volcano risk methodology will prove to be valuable in assessing risk in these other areas beyond Europe and its territories
    .

  9. A fine gennaio 2014 Roma e buona parte del centro Italia sono state interessate da una “bomba d’acqua” che ha sommerso molte località. Il problema è nel mutamento climatico, ma anche nel fatto che «L’Italia viene continuamente rattoppata perché c’è anche chi lucra e specula sull’emergenza. Che verificandosi a ripetizione, garantisce guadagni vita natural durante» (Guglielmo Pepe). Ecco perché bisognerebbe bandire locuzioni tipo “cultura dell’emergenza”.

    Blog “Qui Italia”, in “National Geographic”, 3 febbraio 2014, QUI

    PERCHE’ L’ITALIA “AFFOGA”
    di Guglielmo Pepe

    Il Tevere gonfio e largo come la Senna è diventato un’attrattiva per romani e turisti. Ma dietro lo spettacolo c’è il disastro, perché diverse zone della capitale d’Italia sono rimaste ”affogate” dall’incessante pioggia di questi giorni. Ora l’emergenza forse è finita. Però restano i danni. Ai quali si porrà rimedio temporaneo, perché per mettere in sicurezza ciò che non è sicuro, servirebbero somme enormi e anni di lavoro. E questo vale per Roma come per il resto del Paese dove è piovuto a cascate d’acqua causando allagamenti, distruzioni, smottamenti.
    L’abbiamo scritto più volte: l’Italia è un paese fragilissimo. In parte per la conformazione del territorio, ma in larghissima parte perché è stato – ed è ancora – violentato da sfruttamento, speculazione, incuria, disinteresse. E la terra mangiata dal cemento ad un certo punto di ribella, si rivolta, contro l’uomo che continua ad abusarne.
    Adesso si cerca di mettere in sesto l’economia nazionale e questo è l’impegno prioritario del governo. Eppure la più grande operazione economica, il più grande investimento che si potrebbe fare, è il risanamento del territorio. Però non si fa, perché costa molto, troppo. Senza rendersi conto che i continui disastri ambientali – ormai sempre più frequenti – fanno spendere parecchio di più di una lungimirante prevenzione.
    Così si va avanti alla giornata e si mettono delle “toppe”. Come quelle che si fanno sulle strade di Roma per tappare le buche stradali, che in questi giorni si sono moltiplicate a dismisura. Ma rifare per bene il manto stradale, e una volta per tutte, non permetterebbe di moltiplicare, appunto, all’infinito gli appalti.
    L’Italia viene continuamente rattoppata perché c’è anche chi lucra e specula sull’emergenza. Che verificandosi a ripetizione, garantisce guadagni vita natural durante ad un numero enorme di piccole aziende dedite alla manutenzione edilizia e stradale. Quando si riuscirà a rompere questo “ingranaggio” succhia soldi pubblici, probabilmente saremo più vicini a quella parte di Europa che ammiriamo (e un po’ invidiamo)
    .

  10. Pingback: La Campania finanzia i Piani Comunali di protezione civile | Paesaggi vulcanici

  11. Il 27 marzo 2014 il “Corriere della Sera” ha pubblicato una galleria fotografica (testi a cura di Alessandro Filippelli) sulle 10 città più a rischio di catastrofi naturali del mondo, elenco stilato dalla compagnia riassicurativa “Swiss-Re” nel 2013 con il paper “Mind the risk. A global ranking of cities under threat from natural disasters” (pdf). La notizia è ripresa dal sito web del “Guardian”.
    Di seguito riporto testi e fotografie rispettivamente del “CorSera” e del “Guardian”:

    Ecco le 10 città più pericolose al mondo secondo una classifica pubblicata sul sito web del «The Guardian» sulla base di un rapporto reso noto da una società assicurativa (Swiss Re) che ha valutato 616 città di tutto il mondo a rischio terremoti, uragani e cicloni, tempesta, inondazioni e tsunami. Al primo posto è la regione di Tokyo-Yokohama. Si stima che l’80% degli abitanti di Tokyo, 29 milioni circa, sono continuamente esposti al pericolo di terremoti. Il Giappone è tra i primi Paesi al mondo ad alto rischio sismico perché situato nel cosiddetto “Anello di fuoco”, un’area dall’attività vulcanica molto intensa. Da ricordare è il grande terremoto di Kanto del 1923 che devastò sia Tokyo che Yokohama, uccidendo circa 142.800 persone.

    Earthquakes, hurricanes, cyclones and tsunamis: the world’s 10 riskiest cities. What are the world’s riskiest cities when it comes to natural disasters? A reinsurance company set out to assess 616 cities around the world for their risk of earthquake, hurricanes and cyclones, storm surge, river flooding and tsunami. Here are Swiss Re’s overall top 10 most risky cities.

    1)

    Nella foto la città di Tomioka devastata dallo tsunami del marzo 2011 (foto Epa).


    Tokyo-Yokohama, Japan: With 37 million inhabitants living under the threat of earthquakes, monsoons, river floods and tsunami, the Tokyo-Yokohama region is by far the riskiest in the world: an estimated 80% of Tokyoites, or 29 million, are potentially exposed at any one time to a very large earthquake. Japan is also the country most exposed to tsunami risk, as the country’s urban centres are dotted with an almost perverse accuracy along the Ring of Fire, the active faults of the western Pacific. The Great Kanto Earthquake of 1923 devastated both Tokyo and Yokohama, killing an estimated 142,800 people.

    – – –

    2)

    Seconda in classifica è la città di Manila, capitale delle Filippine, con 1,6 milioni di abitanti dove il rischio sismico e il pericolo dei tifoni è molto alto. L’ultimo tifone in ordine di tempo, Haiyan, con una tempesta che viaggiava a 300 chilometri all’ora, ha provocato più di tremila seicento vittime e distrutto diverse isole centrali, rovinando la città costiera di Tacloban (Reuters)


    Manila, Philippines: Built just off the Philippines trench, Manila is one of the most risk-plagued cities you can possibly live in. As well as the substantial earthquake risk, high wind speeds are a severe threat: the powerful typhoon Haiyan that swept the country last year was one of the strongest ever to make landfall. It destroyed several central islands, ruined the coastal city of Tacloban and killed thousands. Photograph: Francis R Malasig/EPA

    – – –

    3)

    Terza è l’area del delta del fiume delle Perle in Cina, un agglomerato urbano con più di 42 milioni di abitanti che si sviluppa in una pianura alluvionale minacciata da ogni sorta di calamità naturale (Ap).


    Pearl River Delta, China: This near-unbroken urban conglomeration, including Hong Kong, Shenzhen, Dongguan, Macau and Ghangzhou, is home to more than 42 million people. One of China’s economic jewels (estimated GDP: $690bn) is spread across a flood plain threatened by all manner of natural disasters: it is the number one metropolitan area for storm surge, with 5.3 million people affected, the third-highest for cyclonic wind damage (17.2 million), and the fifth riskiest city for river floods. Pictured is Victoria harbour in Hong Kong. Photograph: Philippe Lopez/AFP/Getty Images.

    – – –

    4)

    Al quarto posto Osaka, in Giappone, dove 14,6 milioni di persone vivono sotto la minaccia di terremoti come quello che ha ucciso migliaia di persone nel 1995. Kobe, Giappone (Reuters).


    Osaka-Kobe, Japan: Osaka-Kobe is home to 14.6 million people living under the threat of earthquakes such as the one that killed thousands of people in 1995. It also suffers from brutal storms and the risk of river flooding. And then there are the storm surges, in which heavy winds from typhoons of the kind that hit east Asia whip up gigantic waves: the metropolitan area’s location on a large coastal plain means three million people are at risk. It is also the third-most tsunami-prone city in the world. Photograph: Kimimasa Mayama/Reuters.

    – – –

    5)

    Quarta [sic] è la capitale dell’Indonesia, Jakarta. Situata sotto il livello del mare, si trova in un’area pianeggiante, in prossimità di una faglia. Questo significa che i terremoti possono essere particolarmente pericolosi per i 17,7 milioni di abitanti. Al rischio sismico bisogna poi aggiungere il pericolo alluvioni (Reuters).


    Jakarta, Indonesia: Fully 40% of Jakarta is below sea level; it lies in a flat basin with soft soil near a fault line. This means earthquakes can be particularly dangerous to its 17.7 million inhabitants, as the soft soil can magnify the intensity of the tremors. Quakes can also liquify Jakarta’s poorly drained soil, causing the ground to lose its structural integrity and react like a liquid. Add to that Jakarta’s risk of river flood and it becomes one of the most exposed cities on the planet. Photograph: Adek Berry/AFP/Getty Images.

    – – –

    6)

    Quinta [sic] è la città di Nagoya in Giappone, che si affaccia nel Pacifico ed è a forte rischio tsunami. Giappone, Iwate (Epa).


    Nagoya, Japan: Tsunami risk dominates in the Pacific. The most exposed cities, dotted along the active faults of the western ocean, are in Japan – led by Tokyo-Yokohama and Nagoya, each with around 2.4 million people potentially affected. With 12 million people in total at great risk, tsunamis affect by far the fewest people of the great five natural disasters analysed here – but the death tolls can be enormous. Photograph: Japan Ground Self-Defence Force 10th Division/Reuters.

    – – –

    7)

    Inondazioni e uragani minacciano la città di Calcutta, India. Al sesto posto [sic] delle città più rischiose con i suoi 10,5 milioni di abitanti (Reuters).


    Kolkata, India: River floods also affect Kolkata, with 10.5 million people at risk – but the eastern Indian city is also fifth in terms of tsunami risk, with more than half a million people exposed. It is also threatened by hurricanes. Photograph: Dibyangshu Sarkar/AFP/Getty Images.

    – – –

    8)

    A rischio alluvione sono le aree che sorgono sui fiumi di Shanghai in Cina, all’ottava posizione della classifica (Ansa).


    Shanghai River, China: With so many cities built on flood plains and river deltas, flooding is the most common risk they face. India and China face the most significant risks; with 11.7 million residents directly threatened, Shanghai is a particular hot spot for flooding, but other such risky cities include Bangkok, Mexico City, Baghdad, Paris and Doha. Photograph: Mark Ralston/AFP/Getty Images.

    – – –

    9)

    Al nono posto Los Angeles, California. La sua posizione sulla faglia di Sant’Andrea la rende una delle città a più alto rischio sismico del mondo (Reuters).


    Los Angeles, United States: Its location on the San Andreas Fault makes Los Angeles one of the most earthquake-prone cities – although not as vulnerable to tsunami as might be expected. Subduction zones, where oceanic plates dive underneath the continental crust, generally create much larger tsunamis than so-called “strike-slip” faults such as the San Andreas and Northern Anatolian faults. Small comfort to the 14.7 million inhabitants of the area threatened by earthquake. Photograph: Timothy A Clary/AFP/Getty Images.

    – – –

    10)

    Al decimo posto Teheran, ad alto rischio terremoti. L’ultimo, il più violento, è stato il 9 aprile 2013, di magnitudo fra 6,2 e 6,3. Nella foto Bushehr, Iran. (Reuters).


    Tehran, Iran: We generally think of the San Andreas fault or the Pacific Ring of Fire as being the riskiest zones for earthquakes, but not everyone is immediately aware that the Northern Anatolian fault is one of the most dangerous in the world. The entire 13.6 million population of Tehran is exposed, as are the residents of Bucharest, Tashkent, the capital of Uzbekistan, and much of Turkey. The last quake in Tehran was in 1830, and its building regulations are shakily followed at best – making it a city living on borrowed time. Photograph: Behrouz Mehri/AFP/Getty Images.

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