La pelle, Curzio Malaparte

Chi consiglia i libri si aspetta che l’altro possa cominciarne immediatamente la lettura. Purtroppo non è sempre così, almeno nel mio caso. Solo ora, infatti, dopo molti mesi da quando m’era stato consigliato da un prof, sono riuscito a trovare La pelle di Curzio Malaparte (ristampato lo scorso autunno da Adelphi) e ad affrontarne le pagine. In particolare, i capitoli La pioggia di fuoco e Il Dio morto sono una descrizione dell’eruzione vesuviana del 1944 e della sua successiva entrata in quiescenza la cui narrazione è semplicemente potente. Molte frasi sarebbero da citare, sia nella stesura finale della ricerca che durante le interviste ai più anziani. Probabilmente farò un elenco di quelle più evocative.

Intanto ricordo che:

  • Stas’ Gawronski vi ha dedicato una puntata di CultBook (su YouTube, 7’52”);
  • un’analisi interessante è proposta da Verena Lindtner in Il Vesuvio – un vulcano nella letteratura e nella cultura (su GoogleBooks);
  • tra le interpretazioni citate da Lindtner, è da segnalare un saggio di Gianni Grana: Curzio Malaparte (del 1961) (su GoogleBooks).

 

Infine, altre informazioni da tenere a mente sono:

  1. il film diretto da Liliana Cavani nel 1981, La pelle, con Marcello Mastroianni (nei panni di Curzio Malaparte), Burt Lancaster (che interpreta il generale Clark) e Claudia Cardinale: su Wikipedia;
  2. la biografia di Malaparte: su Wikipedia;
  3. la trama del romanzo La pelle: su Wikipedia.

Lontano dagli occhi

Non avevo alcun contatto in paese, non conoscevo nessuno che potesse fornirmi qualche indicazione per entrare nel contesto locale. Allora ho vagliato le varie associazioni riconosciute dall’albo comunale e ho contattato quelle che mi sembravano più adatte a recepire il discorso della mia ricerca e, quindi, potenzialmente più disponibili a darmi informazioni e collaborazione. L’associazione che si è rivelata più propensa e collaborativa si occupa di volontariato e di commercio equo e solidale. Ho incontrato il responsabile tre volte e, a partire, dai collaboratori e dai soci, il mio nome ha cominciato a circolare tra genitori e parenti.
G.R., che avrà sui 35 anni, mi ha ascoltato con interesse e subito si è attivato per aiutarmi a rintracciare qualche persona disponibile a farsi intervistare. Ma lui stesso, che abita in paese da una ventina d’anni, è una “fonte” interessante. Nell’ora in cui ci siamo conosciuti ha parlato dell’anziana fornaia di cui devo assolutamente assaggiare il pane e del sindaco, figlio del sindaco precedente che è una sorta di “padre fondatore” del paese attuale dopo l’eruzione che distrusse l’abitato 70 anni fa.
Mentre mi raccontava di queste persone, giravamo per il negozio di prodotti esotici solidali e, ad un certo punto, dietro una scaffalatura, appoggiato al muro col fronte verso la parete, ha preso un grande quadro donato all’associazione da un benefattore. E’ una tela che ritrae un vulcano in eruzione: è un’immagine molto drammatica, scura e su fondo nero, con lampi rossi e macchie di lava che sembrano sangue. E’ una pittura bella e carica di energia, ma indubbiamente inquietante.
G.R. l’apprezza (da una valutazione ha scoperto che potrebbe valere circa 2mila euro), ma esclude categoricamente di affiggerla nel negozio. Potrebbe turbare i clienti, ma anche i collaboratori, oltre che lui stesso. Gesti, sguardi e un leggero sorriso nervoso tradiscono un certo disagio verso quella che, evidentemente, non è solo un’immagine dipinta. Pertanto, non potendo (e volendo) liberarsene, tiene quella pittura lontano dagli occhi, in un angolo contro la parete, dietro numerose scatole di merce, quasi come in un ripostiglio.

Nelle prossime settimane devo fotografare il quadro e la sua “collocazione”, ma soprattutto devo intervistare G.R. su questo punto specifico.

Come ginestre

La catastrofe non c’è. Certo ci fu, e ci fu più volte; d’altra parte in certe zone della crosta terrestre è naturale che si ripeta con maggior frequenza. Ma ora, qui, la catastrofe non c’è. Da quasi settant’anni quel cataclisma – “il” cataclisma – qui non si verifica. In compenso sono arrivati altri disastri.
Eppure il discorso sulla catastrofe non è svanito, infatti si comporta come un fiume sotterraneo che solo in determinati punti si mostra in superficie. In particolare, il discorso carsico della catastrofe riemerge almeno in un paio di occasioni: quando un disastro colpisce qualche punto del pianeta, anche molto lontano, e quando, conversando con gli abitanti del posto, si evoca il rischio che corrono vivendo in una zona vulcanica. Tzunami, terremoti ed eruzioni si abbattono quotidianamente nel mondo, ma – vuoi per ragioni quantitative (numero di vittime), vuoi per ragioni qualitative (luogo e popolazione colpiti) – quando raggiungono i mass-media essi diventano il famigerato battito d’ali della farfalla cinese: all’istante, cioè, si immaginano gli effetti che potrebbero avere nell’area napoletana, per cui si mette in moto una macchina alimentata da divulgatori ospitati nelle trasmissioni televisive pomeridiane, da specialisti intervistati nei telegiornali di punta, da scienziati pubblicati sui principali quotidiani e da esperti in collegamento telefonico attraverso la radio.
La conoscenza degli eventi calamitosi ha come ideale sviluppo quello di diventare proposta e progetto di sicurezza, ma spesso l’allarme si trasforma in allarmismo a causa di una lacunosa conoscenza dei destinatari – del loro modo di guardare il mondo – i quali, infatti, sembrano rispondere con una vera e propria sordità della ragione. La distanza tra parole e gesti alimenta la diffidenza verso soluzioni ritenute estreme: lasciare la propria casa, i propri luoghi, la propria gente, portare il proprio lavoro altrove o cercarne un altro, ammettendo che ce ne fosse la possibilità, smettere di modificare (o difendere) il proprio spazio e così via sono ritenute una forma di non-vita. Allora tutto resta immobile, nel perpetuarsi di un’unica paradossale certezza: la precarietà dell’esistenza è la sola condizione costante, quella che non cambia da un luogo ad un altro, quella che, ovunque si vada, non si allontana mai da noi stessi.
All’ombra di un vulcano la vita e ciò che la minaccia non sono dissimili da quelle di qualsiasi altra parte. Forse un po’ più ostinate, come ginestre, ma proprio come fiori del deserto, non hanno la presunzione d’essere immortali. Qui l’ostinata modernità antropocentrica non ha spazio; non ne ha completamente. Per cui il discorso sulla catastrofe torna in profondità e si resta a vivere là dove si è sempre vissuti.
La paura sembra sparire o essere ignorata, come gli slogan antitabagisti sui pacchetti di sigarette, almeno fino alla prossima volta in cui qualcuno – magari un ricercatore – non porga qualche domanda sul rapporto tra spazio abitato e spazio immaginato. Cosa c’è alla base? Ignoranza, sciatteria, follia, vertigine? O un’altra logica?

PS: dopo quasi due anni, questo è “il Taccuino dell’Altrove 2.0”.