La catastrofe non c’è. Certo ci fu, e ci fu più volte; d’altra parte in certe zone della crosta terrestre è naturale che si ripeta con maggior frequenza. Ma ora, qui, la catastrofe non c’è. Da quasi settant’anni quel cataclisma – “il” cataclisma – qui non si verifica. In compenso sono arrivati altri disastri.
Eppure il discorso sulla catastrofe non è svanito, infatti si comporta come un fiume sotterraneo che solo in determinati punti si mostra in superficie. In particolare, il discorso carsico della catastrofe riemerge almeno in un paio di occasioni: quando un disastro colpisce qualche punto del pianeta, anche molto lontano, e quando, conversando con gli abitanti del posto, si evoca il rischio che corrono vivendo in una zona vulcanica. Tzunami, terremoti ed eruzioni si abbattono quotidianamente nel mondo, ma – vuoi per ragioni quantitative (numero di vittime), vuoi per ragioni qualitative (luogo e popolazione colpiti) – quando raggiungono i mass-media essi diventano il famigerato battito d’ali della farfalla cinese: all’istante, cioè, si immaginano gli effetti che potrebbero avere nell’area napoletana, per cui si mette in moto una macchina alimentata da divulgatori ospitati nelle trasmissioni televisive pomeridiane, da specialisti intervistati nei telegiornali di punta, da scienziati pubblicati sui principali quotidiani e da esperti in collegamento telefonico attraverso la radio.
La conoscenza degli eventi calamitosi ha come ideale sviluppo quello di diventare proposta e progetto di sicurezza, ma spesso l’allarme si trasforma in allarmismo a causa di una lacunosa conoscenza dei destinatari – del loro modo di guardare il mondo – i quali, infatti, sembrano rispondere con una vera e propria sordità della ragione. La distanza tra parole e gesti alimenta la diffidenza verso soluzioni ritenute estreme: lasciare la propria casa, i propri luoghi, la propria gente, portare il proprio lavoro altrove o cercarne un altro, ammettendo che ce ne fosse la possibilità, smettere di modificare (o difendere) il proprio spazio e così via sono ritenute una forma di non-vita. Allora tutto resta immobile, nel perpetuarsi di un’unica paradossale certezza: la precarietà dell’esistenza è la sola condizione costante, quella che non cambia da un luogo ad un altro, quella che, ovunque si vada, non si allontana mai da noi stessi.
All’ombra di un vulcano la vita e ciò che la minaccia non sono dissimili da quelle di qualsiasi altra parte. Forse un po’ più ostinate, come ginestre, ma proprio come fiori del deserto, non hanno la presunzione d’essere immortali. Qui l’ostinata modernità antropocentrica non ha spazio; non ne ha completamente. Per cui il discorso sulla catastrofe torna in profondità e si resta a vivere là dove si è sempre vissuti.
La paura sembra sparire o essere ignorata, come gli slogan antitabagisti sui pacchetti di sigarette, almeno fino alla prossima volta in cui qualcuno – magari un ricercatore – non porga qualche domanda sul rapporto tra spazio abitato e spazio immaginato. Cosa c’è alla base? Ignoranza, sciatteria, follia, vertigine? O un’altra logica?
PS: dopo quasi due anni, questo è “il Taccuino dell’Altrove 2.0”.