Mettici la mano tua

Oggi, 19 settembre, festa di San Gennaro Martire, patrono di Napoli, tutto è andato secondo copione: «Si è ripetuto alle 9,41 il prodigio dello scioglimento del sangue di San Gennaro. L’annuncio è stato dato ai fedeli in preghiera nel Duomo di Napoli dal cardinale Crescenzio Sepe che ha sventolato, secondo l’antica tradizione, il fazzoletto bianco ed è stato accolto dai fedeli, giunti nella cattedrale di Napoli sin dalle prime ore del mattino, da un lungo e liberatorio applauso. Il ripetersi del miracolo è letto dai napoletani come un segno di buon auspicio per la città» (ANSA).
Per questa occasione, Leonardo Tondelli ha scritto un lungo post agiografico in cui, però, il santo non è protagonista, ma al centro del testo c’è il Vesuvio. Il legame tra il vulcano napoletano e la religiosità dei suoi abitanti è leggendaria, ma in generale ogni territorio “a rischio”, così come ogni disastro avvenuto, catalizzano e producono bisogni e sensibilità legate al trascendente. Il ragionamento di Tondelli, invece, si concentra sul tangibile, ovvero sulla (im)preparazione al rischio vulcanico. L’articolo si intitola “L’opzione San Gennaro” (su «Il Post» e sul suo blog) e, in merito all’eventualità di un’eruzione, tocca i seguenti dieci punti:

  1. L’intervento di Nakada Setsuya circa la possibilità che il Vesuvio torni ad eruttare: «un segreto di Pulcinella» che nemmeno l’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, negava o sminuiva, ma che anzi riteneva «il più grande problema di Protezione Civile che c’è in Italia» (e per il quale bisognava «predisporre piani di evacuazione per almeno un milione di cittadini, tra cui molti di Napoli»).
  2. Il coinvolgimento attivo delle altre regioni italiane che dovranno accogliere le centinaia di migliaia di persone evacuate dalla “zona rossa vesuviana”. Queste regioni lo sanno? Sono pronte?
  3. Le modalità e i mezzi con cui gli sfollati vesuviani dovrebbero raggiungere le regioni ospitanti. (Attualmente è in progetto un adeguamento della SS 268).
  4. La monitorizzazione scientifica del vulcano: «il Vesuvio è costantemente monitorato. È il vulcano più studiato del mondo».
  5. La storia eruttiva del Vesuvio degli ultimi due millenni e il legame col culto di San Gennaro (che diventa stretto solo dal Seicento).
  6. La memoria dell’ultima eruzione: 1944.
  7. I tre (principali) scenari possibili: [a] «potrebbe risolversi tutto con una sboffata di fumo e la solita colata lavica stile Etna»; [b] «Un’altra possibilità è che la terra cominci a tremare e vada avanti per mesi, come nel 1631. A quel punto avremmo un po’ di tempo per evacuare»; [c] «La terza possibilità è che le cose vadano veramente male: un’eruzione esplosiva senza molto preavviso».
  8. Il progetto “VesuVia” e il suo fallimento.
  9. Un’idea goliardica: girare un film catastrofico, anzi un vero e proprio kolossal con un cast hollywoodiano, che permetta di recuperare consapevolezza sulla natura del territorio di cui stiamo parlando: «Potremmo persino recuperare l’investimento: e sarebbero altri soldi per la statale e per gli svincoli e per i rifugi a prova di nubi tossiche. Ma soprattutto, dopo aver visto un film così, non avremmo più alibi. Sapremmo che viviamo alla pendici del più grande disastro possibile».
  10. La cruda realtà, ovvero il punto di vista di un politico: «Prevenire i disastri naturali costa troppo. Qualcuno potrebbe obiettare che ricostruire dopo un disastro costa ancora di più, ma non è detto che sia così. Mettiamoci dal punto di vista di un politico. Per lui la prevenzione significa tasse: tasse significa perdere le elezioni. Quindi la prevenzione ha un costo inaccettabile. Viceversa il disastro significa solidarietà. Significa gesti incredibili, che solo un’emergenza può suggerire o giustificare. […] Lasciare che il Vesuvio erutti o esploda può sembrarvi una pazzia, ma a un certo livello di responsabilità diventa un’opzione più praticabile, più conveniente di altre».

Leonardo Tondelli (che ha scritto del Vesuvio anche altre volte: ne ho raccolto i testi in questi miei post) coglie l’aspetto fondamentale di ogni discorso sul rischio: la questione politica che esso porta con sé. Allo stato attuale, la catastrofe annunciata causata da una futura eruzione vesuviana non sarà naturale, bensì prettamente antropica.

Colgo lo spunto di questo articolo di Leonardo per raccogliere tra i commenti di questo post le notizie che in futuro incontrerò sul legame tra rischio e religiosità.

  • Torre Annunziata, fine ottobre 2013: canto alla Madonna della Neve contro la camorra e l’inquinamento, QUI. La Vergine è commemorata sia il 5 agosto (giorno della Madonna della Neve, appunto), sia il 22 ottobre (giorno che rievoca il 22 ottobre 1822, quando la divinità, invocata dai cittadini torresi, fermò miracolosamente la lava del Vesuvio): QUI.
  • San Sebastiano al Vesuvio, il 20 gennaio 2011 il maltempo non ha permesso lo svolgimento della processione del santo patrono: è stato un cattivo presagio? Ne scrissi QUI.
  • Monte Somma, ogni sabato dopo Pasqua si svolge un pellegrinaggio chiamato “Il Sabato dei Fuochi” e ogni 3 maggio si festeggia il cosiddetto “Tre della Croce”. Ne scrissi QUI.
  • San Giorgio a Cremano, il 19 maggio viene celebrata la “Festa della lava“, in ricordo di San Giorgio Martire che nel 1872 salvò miracolosamente la città dalla colata lavica. Altre info: QUI (o qui)

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Su “Repubblica.it” del 15 agosto 2011, c’è una galleria fotografica intitolata “Java: ex-voto nel cratere per ringraziare gli dei“.
La didascalia recita: “Indonesia, per ringraziare le divinità indu della prosperità, la salute e il buon raccolto si svolge a Java la tradizionale cerimonia Kasada nel corso della quale i fedeli gettano nel cratere del Monte Bromo ogni genere di offerte: animali vivi, frutta, verdura“.

Clicca sull’immagine per accedere alle 18 fotografie dell’intero reportage.

Approfondimenti sulla cerimonia Kasada sono QUI, QUI e QUI.

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“Il Post” ha pubblicato una foto notevole: è una processione di donne filippine che portano delle effigi sacre sulle macerie lasciate dal tifone Haiyan. Quel sentimento non ha confini: né spaziali, né temporali. Potrebbe essere, infatti, San Sebastiano al Vesuvio nel marzo 1944. O la Sardegna di queste ore.

“Sopravvissuti al tifone Haiyan durante una processione religiosa a Tolosa, nella parte orientale dell’isola di Leyte, nelle Filippine. Secondo le Nazioni Unite 1,9 milioni di persone hanno perso le loro case a causa del tifone”.
Clicca sulla foto per accedere alla pagina originale.

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AGGIORNAMENTO del 4 febbraio 2014:
“RaiNew24” ha pubblicato una galleria fotografica con immagini di preghiere per placare l’eruzione del vulcano Sinabung, nel Nord di Sumatra, in Indonesia: «Una colonna di fumo alta due chilometri e mezzo si alza dal vulcano Sinabung dopo l’ennesima violenta eruzione che ha trasformato la regione circostante in un paesaggio apocalittico».

Clicca sull’immagine per accedere alla galleria fotografica.

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AGGIORNAMENTO del 6 aprile 2014:
Antonio Cimmino riferisce di un musical su San Gennaro e Napoli in scena in questi primi giorni di aprile 2014 presso la Mostra d’Oltremare: Sangue Vivo: il primo musical su San Gennaro (“Il Mediano”, 6 aprile 2014, QUI).

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AGGIORNAMENTO del 19 maggio 2014:
Come scrivevo più su, nel mese di maggio a San Giorgio a Cremano viene celebrata la “Festa della lava“, in ricordo di San Giorgio Martire che nel 1872 salvò miracolosamente la città dalla colata lavica, ma anche in ricordo della processione con cui il santo fu portato dinnanzi al fronte lavico nel 1944, anno dell’ultima eruzione vesuviana. Ieri la celebrazione si è conclusa con l’incontro tra San Giorgio e San Sebastiano nel santuario di quest’ultimo. Ne ha scritto “San Sebastiano al Vesuvio News” sulla sua pagina facebook:

San Sebastiano al Vesuvio, 18 maggio 2014, incontro tra le statue di San Sebastiano e San Giorgio in ricordo dell’eruzione del 1944.

L’incontro di ieri sera, in un emozionante clima di festa, ha riacceso i riflettori sull’ultima eruzione del 1944. Allora erano in gioco il futuro e la sopravvivenza dei paesi vesuviani stretti nella morsa della lava. Divisi in costumi e tradizioni, sospettosi e competitivi, i rispettivi cittadini si trovarono così uniti nel richiamo alla provvidenza divina.
L’esigenza del ricordo si lega alla immutata e complessa natura del nostro territorio, diventando monito per le coscienze: occorre che le istituzioni locali lavorino in sinergia al fine di minimizzare ogni potenziale rischio connesso al Vesuvio.
L’abbraccio fra San Giorgio e San Sebastiano rappresenta, a mio avviso, un importante passo in questa direzione.

Un reportage fotografico dell’evento è stato pubblicato da Anna Esposito sul suo spazio facebook:

Foto di Anna Esposito. Clicca sull’immagine per accedere all’intero reportage pubblicato su fb.

AGGIORNAMENTO del 21 maggio 2014:
La pagina fb di “San Sebastiano al Vesuvio News” ha diffusouna nota storica per meglio comprendere l’incontro fra San Giorgio e San Sebastiano della scorsa domenica“:

Era il 22 marzo del 1944. San Sebastiano al Vesuvio e Massa di Somma erano già in parte distrutte dal principale torrente di fuoco ed anche Cercola era minacciata. Norman Lewis, ufficiale alleato a seguito dell’esercito americano, nel suo libro-diario “Napoli44″, descrive così il suo arrivo a San Sebastiano:”Al momento del mio arrivo la lava stava avanzando piano piano lungo la strada principale del paese, e a cinquanta metri dalla grande massa di detriti in lento movimento, alcune centinaia di persone, per lo più in nero, stavano inginocchiate in preghiera.”
Si pregava affinchè un intervento divino giungesse a placare la furia del Vesuvio. Anche i cittadini di San Giorgio a Cremano si raccolsero in preghiera alla notizia che la lava minacciava l’abitato. San Giorgio Martire, secondo la tradizione, aveva salvato la cittadina vesuviana già in occasione dell’eruzione del 1872 – era il 19 maggio – arrestando il fiume di lava proprio al confine con San Sebastiano. Un precedente ci fu anche durante l’eruzione del 1855 quando i san giorgesi invocarono San Giorgio e la Madonna dell’Immacolata promettendo di portare le statue in processione qualora fosse salvo il paese.
Memore di quella promessa, il 22 marzo del 1944, il parroco, mons. Giorgio Tarallo, raccolse a suon di campane la popolazione nella chiesa di S. Maria del Principio. Da questa plevò la statua di San Giorgio Martire mentre dalla contigua Arciconfraternita, quella di Maria SS. Immacolata.
Alle 14 partiva la processione guidata dall’allora Sindaco Salvatore Ambrosio che innalzava un crocifisso. Da Corso Roma, proseguendo per via Pittore, si giunse in corrispondenza del fronte lavico presso le Novelle di Resina. Le statue dei Santi protettori furono poste in prima fila mentre i fedeli intonavano canti e preghiere.
Di li a poco, tra la generale commozione della folla, la lava arrestò il suo cammino risparmiando il paese.

La statua di San Giorgio sul fronte lavico del 1944

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AGGIORNAMENTO del 20 agosto 2014:
Li ho definiti “riti in emergenza”, quelli cioè che si effettuano durante una crisi o un disastro. “Il Post” riferisce che in Liberia i fedeli di una chiesa cristiana locale pregano in riva all’oceano per invocare la fine dell’epidemia di ebola, come documentano le fotografie di John Moore:

INTEGRAZIONE del 20 ottobre 2014:
Anna Momigliano riferisce su “Studio” come gli antropologi aiutano a combattere l’epidemia di ebola in Africa: “Come si ferma un’epidemia in paesi dove c’è chi è convinto che le epidemie siano causate dalle streghe, non dai virus? Per questo a fianco dei medici alcune organizzazioni internazionali hanno voluto anche antropologi“.

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AGGIORNAMENTO del 12 settembre 2014:
Durante le proteste anti-discarica dell’ottobre 2010, tra Terzigno e Boscoreale una manifestante espose un cartello-invocazione: “Madonna della Neve ferma la monnezza come fermasti la lava” [qui].
Nel corso delle varie emergenze dei rifiuti, nel napoletano si è fatto largo uso del sacro per ritagliare spazi puliti nel mare di spazzatura che aveva invaso le strade. Tra i tanti casi, nel 2008 una statua di Padre Pio ha “salvato” una strada tra Pompei e Scafati [qui]; l’anno scorso un’immagine di “san Rifiuto” ha “liberato” un garage a San Giovanni a Tedduccio [qui]; oggi è uscita la notizia di un Padre Pio che sta “proteggendo” un vicolo di Capodimonte a Napoli [qui].
Sebbene sparita dai giornali, sembra proprio che l’emergenza tra le strade del napoletano non sia affatto finita.

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AGGIORNAMENTO del 20 settembre 2014:
Anche ieri san Gennaro ha compiuto il miracolo: il sangue si è sciolto alle 10h11 e tutti hanno gioito. Ne ho raccolto un paio di articoli QUI. Il commento più divertente, ma al contempo stimolante, che ho letto è di Luca Fiorentino: “per quanto io possa odiare tutta quella serie di scaramanzie, feticci e devianze ridicole chiamata religione, provo la massima stima nei confronti di chi bell e buono ha messo in mezzo la storia del sangue di san gennaro […]” (continua QUI o tra i commenti).

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AGGIORNAMENTO del 22 novembre 2014:
Chiara Spagnolo riferisce su “Repubblica TV” di un video di 3 minuti in cui è inscenata una processione e dei funerali per la “peste degli ulivi” in Salento. Si tratta di una vera e propria risposta culturale ad un disastro in corso, un rituale in emergenza in cui, tuttavia, non è facile distinguere l’uso mediatico del sacro dallo spirito religioso vero e proprio. Tra i promotori dell’iniziativa c’è anche la Diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca: “Un mesto corteo funebre in campagna, preghiere recitate con gli occhi pieni di lacrime, donne vestite a lutto e persino il parroco che effonde l’incenso nell’aria: è il funerale degli ulivi, immortalato in un video commissionato dalla Diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca, che da giorni spopola sul web. Un’iniziativa che la curia ha voluto e promosso attraverso la Fondazione monsignor Vito De Grisantis, per promuovere il dibattito sulla Xylella fastidiosa, “il cancro degli ulivi”, “che si è già diffuso su 40.000 ettari, ha colpito un milione di alberi in Salento – tanti, troppi” come è scritto nei titoli di coda del mini-cortometraggio realizzato da Antonio Scarcella e Michele Rizzo con l’aiuto di Laura Campanile per Iorec produzione. Il video è girato tra il paese di Tiggiano e l’agro di Gallipoli, ovvero le zone più colpite dal batterio killer, e mostra scene di vita quotidiana di anziani salentini, per i quali la morte dell’ulivo è come quella di una persona cara. Di fronte alle foglie seccate dalla xylella le lacrime scendono copiose e bagnano i visi segnati dalla fatica, negli abbracci le donne cercano consolazione per la perdita e ai piedi dell’albero viene infine posta una corona di fiori, per salutarlo come se fosse un figlio“.

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9 thoughts on “Mettici la mano tua

  1. «Il Post», 19 settembre 2013, QUI

    L’OPZIONE SAN GENNARO
    di Leonardo Tondelli

    19 settembre – San Gennaro (272-305), patrono di Napoli.

    Da quel che ho capito andrà così: stamattina alle nove meno un quarto il cardinale arcivescovo, Sua Eminenza Reverendissima Crescenzio Sepe, entrerà nella Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro, una chiesa-nella-chiesa (fa parte del duomo di Napoli, ma non appartiene alla Curia, bensì alla Città. È complicato). Non si soffermerà nemmeno per un istante sugli ori e i preziosi il cui valore teorico complessivo supererebbe, secondo gli esperti e i gemmologi che hanno provato a stimarlo, quello dei gioielli della Corona d’Inghilterra. Il cardinale non li degnerà di uno sguardo, e non per modestia ma perché non si trovano lì, bensì dispersi tra un caveau e i tre piani del Museo del Tesoro attiguo. Senza distrarsi, girerà un paio di chiavi nell’antica cassaforte che custodisce ben altro tesoro: due modeste ampolline. Una è praticamente vuota: il contenuto è a Madrid, ce lo portò un re di Napoli (Carlo III) quando nel 1579 fu promosso re di Spagna. L’altra è quella che avete visto nelle foto, rossa di una sostanza che forse è sangue rappreso e forse no: e che tre volte all’anno, quando il Cardinale la solleva, la maneggia, la mostra ai credenti, a volte ritorna allo stato liquido; e a volte no. È un miracolo? No, per la Chiesa è soltanto un prodigio. Non occorre credervi; d’altro canto più di uno studioso negli ultimi anni si è adoperato a dimostrare che il fenomeno è spiegabile scientificamente senza ricorrere al soprannaturale. Anche il fatto che a volte si liquefaccia e a volte no potrebbe dipendere da fattori contingenti (temperatura, pressione, sollecitazioni da parte di chi regge l’ampolla). Speriamo in ogni caso che stamattina ce la faccia, perché quando resta secca non è di buon auspicio. Su internet poi si trova di tutto, ma una bella tabella con una serie storica di liquefazioni, e magari una correlazione con avvenimenti storici più o meno fortunati (guerre, pestilenze, eruzioni, scudetti del Napoli) non l’ho trovata.
    Comunque, una volta esposto, il Sangue ha otto giorni a disposizione per liquefarsi; o meglio, i fedeli hanno una ottava per riuscire a commuovere il Santo con le loro preghiere. Se entro il 27 non è ancora successo niente, amen, San Gennaro non è mica obbligato. Certo sarebbe una cattiva notizia, e chi ha bisogno di cattive notizie di questi tempi? Napoli no di sicuro.
    Deve già mandar giù il boccone del vulcanologo giapponese di fama mondiale che a un recente convegno ci ha fatto sapere che il Vesuvio potrebbe eruttare. Già che c’era poteva anche confidarci che sulla pizza ci vuole la mozzarella – ché non lo sappiamo, che il Vesuvio può eruttare da un momento all’altro? Ce lo deve venire a dire un giapponese? A noi che la vulcanologia l’abbiamo praticamente inventata, quando loro ancora stavano all’età del bronzo e noi già pubblicavamo i primi reportage delle eruzioni? Dico a te professor Nakada Setsuya, ti dice niente Plinio il Giovane? Ma poi davvero, è quel che si dice un segreto di Pulcinella. Persino Bertolaso, quando ancora dirigeva la Protezione Civile, ah, ve lo ricordate Bertolaso? Non esattamente un allarmista, anzi se c’era da convincere un aquilano a restare in casa durante uno sciame sismico, non si risparmiava. Ecco, proprio quel Bertolaso: forse che non lo sapeva che il Vesuvio potrebbe eruttare? Aveva anche proposto di allargare la zona rossa al Comune di Napoli. La zona rossa è un insieme di comuni molto densamente popolati che, laddove il vulcano cominciasse a brontolare, dovrebbero evacuare. Recentemente è stata ampliata: in questo momento vi abitano all’incirca 750.000 abitanti, più gli abusivi, meno gli emigrati. La quinta metropoli d’Italia, un po’ più piccola di Torino, molto più grande di Genova. Per Bertolaso, il minimizzatore Bertolaso, la zona andava ampliata un po’ di più, e guardando la cartina è difficile dargli torto: per quale motivo i lapilli o le nubi ardenti dovrebbero fermarsi ai limiti del comune di Napoli? C’è il problema che in quel comune risiede un altro milioncino di abitanti. Bertolaso non lo nascondeva: “Il Vesuvio è il più grande problema di Protezione Civile che c’è in Italia”. Bisognava valutare se “predisporre piani di evacuazione per almeno un milione di cittadini, tra cui molti di Napoli”. (Giornale della protezione civile, aprile 2010). Evacuare un milione di abitanti. Dove?
    Eh.
    In altre regioni d’Italia, dice il Piano. E va bene, in fondo che sarà mai ospitare più o meno un milione di sfollati della zona vesuviana per qualche giorno o mese. Il problema è un po’ più a monte. In altre regioni d’Italia, questi vesuviani, come ci arrivano? Ci sono abbastanza strade per portarli in sicurezza in tempi brevi? Ci saranno, professor Nakada, noi non è mica che ci facciamo cogliere impreparati; quattro giorni fa siamo riusciti a scucire 54 milioni di fondi europei per la Statale 268, quella che corre intorno alle pendici del vulcano. I lavori stanno per iniziare – quando saranno ultimati la statale si riverserà nella Milano-Napoli con un bello svincolo. Nel frattempo, se San Gennaro ci volesse dare una mano… Esercitazioni? Potremmo farne un po’ di più, questo è vero, e tuttavia con le esercitazioni bisogna andarci piano, quella volta che fecero l’antiterrorismo si scontrarono due ambulanze in piazza Garibaldi, cinque feriti. Ma insomma si fa quel che si può, e come si è affrettato a precisare l’istituto nazionale di vulcanologia, il Vesuvio è costantemente monitorato. È il vulcano più studiato del mondo.
    Lo abbiamo sempre avuto tra i piedi – custodisce le orme di umani che fuggivano da un’eruzione liquida di tremila anni fa. Abbiamo i calchi dei pompeiani, bloccati nel fango nella posa in cui morirono, le mani al collo, intossicati e forse ustionati da una nube ardente e velenosa. Però sappiamo anche che può riposare per secoli interi. Tra 1000 e 1600 non si registrano eruzioni sicure. Nello stesso periodo anche la venerazione per Gennaro rimane abbastanza in sordina. Sicuramente i napoletani lo veneravano sin dal quinto secolo, benché non fosse stato vescovo di Napoli ma di Benevento, e fosse morto a Pozzuoli ovviamente sotto Diocleziano, decapitato dai persecutori dopo una serie di tentativi infruttuosi (i leoni non lo volevano mangiare, la fornace non riusciva a cuocerlo, ecc). La testa era poi finita nelle catacombe di Capodimonte e i napoletani vi si erano affezionati: non abbastanza però da costruirgli una chiesa, mentre a una servetta come Santa Restituta era già dedicata una cattedrale. Non si preoccuparono nemmeno di recuperare il resto del corpo, che giacque per secoli dimenticato nell’abbazia di Montevergine, surclassato da reliquie più popolari. E le ampolline? Per quanto ne sappiamo sono sempre state a Napoli, ma non ne abbiamo notizia fino al 1389, in una cronaca dove per la prima volta si descrive la prodigiosa liquefazione, durante le celebrazioni ferragostane dell’Assunta. Lo stupore degli spettatori ci fa ipotizzare che stessero assistendo al fenomeno per la prima volta; d’altro canto questo tipo di celebrazioni attirano sempre gente che si lascia stupire facilmente, e quindi insomma potrebbe anche trattarsi di una tradizione già consolidata. Però una cronaca coeva non ne parla (nemmeno quando si sofferma sui miracoli attribuiti a Gennaro), e in generale nessuno ritiene necessario farne menzione fino alla seconda metà del Cinquecento. Gennaro diventa protagonista della devozione napoletana nello sfortunatissimo 1526, quando tra un assedio e una pestilenza i napoletani fanno voto di dedicargli almeno una cappella del nuovo duomo. La pestilenza si placa, ma per assolvere il voto ci sarebbe voluto più di un secolo, e soprattutto la prima grande eruzione esplosiva da secoli, quella del 1631. Di lì in poi i lavori procedettero più spediti e la cappella fu inaugurata nel giro di 15 anni.
    Il Seicento è anche il secolo in cui la devozione a Gennaro assume in letteratura le forme che mantiene ancora oggi: la cerimonia tre volte all’anno, l’ostensione delle ampolline, la liquefazione interpretata come feedback positivo del Santo alla preghiere dei presenti, l’accumulazione di quell’incredibile tesoro che i napoletani vollero sempre tenere separato dal patrimonio della Curia, che pure possedeva il resto della cattedrale: il cancello bronzeo di Cosimo Fanzago è una specie di Checkpoint Charlie, da una parte le proprietà della diocesi, dall’altra quelle della Città. Gennaro sembra apprezzare, dando una mano a mantenere l’attività sismico-vulcanica entro limiti accettabili: nessuna delle eruzioni dell’era moderna è paragonabile per intensità a quelle conosciute in età preistorica, o quella descritta da Plinio. Il vulcano sembra addomesticato, il che non significa che ci si possa fidare: continua a sbuffare, incendiare e occasionalmente uccidere, ma ha la gentilezza di farlo a intervalli regolari, con un ciclo più o meno di quarant’anni. Il che permetteva a ogni generazione di prepararsi, in quella che era la città più popolosa della penisola (Roma non l’avrebbe raggiunta fino a tutto il Novecento; se poi includiamo anche l’hinterland vesuviano, la gara non è affatto chiusa). E la nostra, di generazione? Quand’è che il Vesuvio ha sbuffato o pisciato lava ultimamente, ve lo ricordate?
    No.
    Non eravate vivi. Forse nemmeno le vostre mamme. Abbiamo le foto, ma in bianco e nero. Un anno già tanto difficile di suo: 1944.
    E poi? Cosa sta succedendo?
    Si è spento? Un vulcano con una storia millenaria, proprio adesso? Difficile – e comunque abbiamo fatto gli scavi, e sappiamo che sotto c’è un mare di magma che arriva fin sotto al mare vero. Quindi, come il professor Nakada ha avuto la bontà di ricordarci, il Vesuvio prima o poi erutterà. Se San Gennaro ci dà un’occhiata, potrebbe risolversi tutto con una sboffata di fumo e la solita colata lavica stile Etna. Qualche quartiere edificato praticamente sotto il cono finirebbe distrutto, Sgarbi ne sarebbe deliziato, ma tutto sommato questo è uno scenario persino auspicabile.
    Un’altra possibilità è che la terra cominci a tremare e vada avanti per mesi, come nel 1631. A quel punto avremmo un po’ di tempo per evacuare senza che diventi una Caporetto con i lapilli al posto degli austriaci. E tuttavia un milione di sfollati è una cosa che non abbiamo mai affrontato nella nostra storia: c’è capitato di andare in confusione per molto di meno, anche di recente. Certo, a quel punto si potrà contare sulla solidarietà internazionale, andiamo, è pur sempre la capitale della pizza. A chi non piace la pizza? Anche agli inglesi (gli inglesi hanno votato contro gli aiuti UE ai terremotati emiliani).
    La terza possibilità è che le cose vadano veramente male: un’eruzione esplosiva senza molto preavviso. Vie di fuga bloccate da milioni di fuggitivi in preda al panico, eccetera eccetera. Il professor Nakada voleva ricordarci che anche questa ipotesi non si può scartare a priori. Però ha torto se pensa davvero che non abbiamo un piano. Lo abbiamo. Ne abbiamo avuti tanti. Uno si chiamava VesuVia: più esplicito di così c’era solo “Jatavénne”. Un programma di finanziamento alle famiglie che sceglievano di trasferirsi fuori dalla zona rossa. Centinaia di famiglie si sono effettivamente trasferite un po’ più in là, spesso in un’area che successivamente è stata inglobata nella zona rossa. E la vecchia casa? l’hanno affittata. Risultato: aumento della popolazione evacuabile.
    Se chiedete a me, un piano ce l’avrei. Si prende l’oro di San Gennaro, non quello nel museo per carità. Si può salvare anche un po’ di bigiotteria da mettere indosso al busto del Santo in processione. Ma i preziosi nel caveau – a che serve tenere per secoli dei gioielli in un caveau? Per quale motivo i napoletani di ogni ceto li hanno ammucchiati lì per anni, se non per un’emergenza come questa? Si prende il tutto, si vende il vendibile, si cartolarizza onde evitare un crollo dei prezzi, e col ricavato si fanno interventi straordinari, per esempio un enorme film catastrofista da subappaltare anche a De Laurentis, se ci avesse le palle, con tutti gli attori più famosi di Napoli d’Italia e del mondo (te lo immagini Siani e Brad Pitt che fuggono assieme dribblando i lapilli). Chi non se lo vedrebbe, un film così. Potremmo persino recuperare l’investimento: e sarebbero altri soldi per la statale e per gli svincoli e per i rifugi a prova di nubi tossiche. Ma soprattutto, dopo aver visto un film così, non avremmo più alibi. Sapremmo che viviamo alla pendici del più grande disastro possibile. Magari sarebbe più facile cambiare abitudini, magari anche cambiare residenza, svolgere esercitazioni, eccetera eccetera. E tutto questo anche grazie a San Gennaro. È il mio piano. Purtroppo, ce n’è uno più semplice ed economico: aspettare e vedere come va.
    Non è affatto un piano miope, anzi. Non è basato, come potrebbe sembrare, sull’ignoranza o sull’imprudenza, ma su un semplice calcolo dei costi e dei benefici. Prevenire i disastri naturali costa troppo. Qualcuno potrebbe obiettare che ricostruire dopo un disastro costa ancora di più, ma non è detto che sia così. Mettiamoci dal punto di vista di un politico. Per lui la prevenzione significa tasse: tasse significa perdere le elezioni. Quindi la prevenzione ha un costo inaccettabile. Viceversa il disastro significa solidarietà. Significa gesti incredibili, che solo un’emergenza può suggerire o giustificare. Se io oggi 19 settembre propongo di investire l’oro di San Gennaro in opere di prevenzione, voi mi pigliate per matto. Ma se tra qualche mese esplode tutto sul serio, persino una proposta così diventa all’improvviso ragionevole: cos’è una collezione di gioie in un caveau rispetto al pianto della vedova, ai gemiti dell’orfano? Purtroppo, affinché la solidarietà del mondo si sblocchi, occorre che la vedova diventi vedova, e l’orfano orfano. Meglio se a portata di videocamera. Lasciare che il Vesuvio erutti o esploda può sembrarvi una pazzia, ma a un certo livello di responsabilità diventa un’opzione più praticabile, più conveniente di altre. Nel frattempo continua l’operazione di addomesticamento simbolico, anche attraverso liturgie innovative, per esempio stiamo proponendo il Vesuvio come Patrimonio dell’Umanità. Una bella contraddizione in termini, oltre che una incredibile dichiarazione di immodestia: quella montagna eruttava già venticinquemila anni fa, e continuerà anche quando ci saremo estinti – a meno che non ci evolviamo in una specie un po’ meno fatalista.
    La liquefazione del sangue di San Gennaro, per quanto prodigiosa, non è un evento così eccezionale. Soltanto a Napoli sono custodite ampolline di altri quattro santi (Giovanni Battista, Patrizia, Stefano Protomartire, Luigi Gonzaga), tutte in grado di sciogliersi se invocate in un certo modo. In giro per l’Italia ce ne sono tante altre, a un certo punto probabilmente era diventato un trucco artigianale e prevedibile quanto il coniglio nel cappello. Tra le varie teorie scientifiche, la più suggestiva è quella secondo cui si tratterebbe in tutti i casi di sangue autentico, anche se non necessariamente di questo o quel santo. Quello che accade al sangue delle ampolline di San Gennaro succederebbe al sangue di chiunque di noi, se avessimo l’accortezza di custodirne magari per secoli un piccolo quantitativo in un ampolla, e poi agitarlo in un certo modo. Siamo tutti San Gennaro, insomma. Possiamo scioglierci e combinare qualcosa, o seccarci e aspettare che qualcosa ci succeda comunque. Non dipende solo da noi, ovviamente: la pressione, la temperatura, la farfalla in Brasile, le infinite variabili che possono farci esplodere o regalare alla nostra progenie una terra fertile e felice. Sarebbe molto immodesto attribuirsi tutte queste responsabilità. Ma almeno qualcuna
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  2. A Torre Annunziata alla fine di ottobre si festeggia la Vergine della Neve. Quest’anno – a conferma di quanto sostengo, ovvero che il rischio è il risultato di una selezione, che considera ciò che è disordine e sporcizia – la «Paranza r’o lione» ha chiuso i festeggiamenti con la «Tammurriata alla Madonna della Neve», scritta da Gerardo Oliva.
    Alcuni versi sono stati modificati così: «…Quanno scuppiaije o’ Vesuvio e scuraije notte, a lava se fermaije annanza a tte, famme nà grazia ancora Maronna mija, salvame da stà camorra e dall’inquinamento…».

    Ne ha scritto “Il Mattino” (26 ottobre 2013):

    L’articolo si legge meglio QUI: “Canto alla Madonna: «Salvaci dalla Camorra e dall’inquinamento»” (di Maurizio Sannino)

    Ho appreso la notizia sulla bacheca fb di Vincenzo Marasco, che ha scritto così:
    Mamma r’à Neve meijia ca veniste ncopp’ò mare, famme truvà na fatica che nun voglio i’ pé ffore. Tu ca te faije purtà sule r’é piscature aiuta a casa mia e stu PAESE pure. Quanno scuppiaije o’ Vesuvio e scuraije notte, a lava se fermaije annanza a tte, famme nà grazia ancora Maronna mija, salvame da stà CAMORRA e dall’INQUINAMENTO (in originale era dalla POLIZIA in quanto anche le forze dell’ordine troppe volte si macchiano di ingiustizie efferate contro chi protesta per i propri diritti di cittadino come anche il diritto alla SALUTE e alla DIGNITA’ espressa dall’avere un LAVORO). Versi di Gerardo Oliva. “Canto alla Vergine: “Salvaci dalla Camorra” pubblicato da Maurizio Sannino in IL MATTINO il 26 Agosto 2013. E sono convinto che tutti insieme, anche con l’aiuto della “Zingarella nosta”, Maria Santissima della Neve di Torre Annunziata, ce la possiamo fare!“.

  3. “Wikipedia”, pagina consultata il 19 marzo 2014, QUI

    FESTA DELLA LAVA
    La Festa della Lava è una festa religiosa che si festeggia ogni anno a San Giorgio a Cremano, città in provincia di Napoli per ricordare il miracolo compiuto da San Giorgio Martire che, secondo la tradizione, nel 1872 salvò la cittadina napoletana dall’eruzione del Vesuvio arrestando il corso della lava vulcanica.
    La festa viene celebrata ogni anno il 19 maggio perché, sempre secondo la leggenda popolare, fu in quel giorno che il santo fermò la lava prima che questa invadesse i confini della cittadina vesuviana distruggendola.
    La festa fu celebrata per la prima volta durante l’eruzione del Vesuvio del 1855. In quella occasione, infatti, il parroco e i cittadini invocarono San Giorgio e la Madonna dell’Immacolata promettendo che se la lava si fosse fermata prima di invadere la città due state sarebbero state portate in quel punto dai sangiorgesi. E così avvenne.
    Il 20 maggio dello stesso anno poi, dalla parrocchia di Santa Maria del Principio, partì la prima processione con la presenza dell’allora vescovo di Napoli Sisto Riario Sforza. La stessa processione fu poi ripetuta durante le successive eruzioni del Vesuvio tra cui quella del 1944.
    In passato la
    Festa della Lava si celebrava tra la prima e la seconda domenica di maggio, mentre nella quarta domenica di maggio le statue di San Giorgio Martire e quella dell’Immacolata venivano portate di sera al confine tra la città di San Giorgio a Cremano e quella di San Sebastiano al Vesuvio perché secondo la tradizione fu in quel punto esatto che la lava si era fermata nel maggio del 1872.
    Oggi la
    Festa della Lava viene celebrata nella chiesa principale di San Giorgio a Cremano dove è conservata anche la statua di San Giorgio martire che durante le celebrazioni viene portato in processione per tutta la città assieme alla Madonna dell’Immacolata.

  4. “Il Mediano”, 6 aprile 2014, QUI

    SANGUE VIVO: IL PRIMO MUSICAL SU SAN GENNARO
    Il musical su San Gennaro e Napoli in scena fino a lunedì al teatro della Mostra d’Oltremare.
    di Antonio Cimmino

    In scena al Teatro Mediterraneo della Mostra d’Oltremare, il primo musical dedicato a San Gennaro e alla sua città. «Sangue Vivo» nasce da un’idea di Antonio Scherillo e del direttore artistico Salvatore Sorrentino.
    Il musical, ambientato ai giorni nostri, racconta dell’incontro, nel giorno di S. Gennaro, tra don Carlo, giovane aspirante boss in ascesa, e Procolo, un personaggio misterioso, che porterà Carlo a conoscere ed imparare a vivere una Napoli diversa da quella che lui vive. Una città piena di fede e speranza, che non si arrende mai alle brutture della società moderna, che lavora con fiducia per ottenere un riscatto definitivo, e lo fa anche grazie al forte legame col suo santo patrono, figura ed esempio sempre attuale.
    Parlare di San Gennaro all’estero ed in Italia, oltre che in buona parte della stessa Napoli, pare si faccia riferimento solo al suo sangue che si scioglie ogni anno tra le mani del Cardinale: cosa che genera certamente ammirazione, ma anche perplessità e forte scetticismo verso un miracolo che in fin dei conti sembra non giovare a nessuno. Sembra… Ma non è così. Il musical fa perciò richiamo al martirio di San Gennaro, il cui sangue sparso a motivo della sua fedeltà a Cristo, viene lasciato in “eredità” alla città perché lo si custodisse e ne si traesse la forza per superare il male. Per resistere al velenoso intreccio tra i mali antichi e moderni che hanno tormentato e tormentano la storia di Napoli.
    Città splendida: posizione mozzafiato, storia dall’impareggiabile valore, cultura letteraria, fede semplice e profonda insieme. Ma anche città ferita: la camorra, il sangue versato tra le strade, gli ultimi avvenimenti de “la Terra dei fuochi”. Ma San Gennaro non è assente e sembra ripetere amaramente nel musical: «Quanta sanghe ce vo’ pe’ salva’ ‘sta città!”. In scena al teatro della mostra d’Oltremare di Napoli
    .

  5. “Il Post”, 20 agosto 2014, QUI

    LE PREGHIERE CONTRO L’EBOLA IN LIBERIA
    I fedeli di una chiesa cristiana africana chiedono la fine dell’epidemia in riva all’Oceano, nelle fotografie di John Moore
    di Redazione

    John Moore, un apprezzato fotografo di Getty Images, si trova in Liberia, da dove sta documentando la vita di tutti i giorni durante la peggiore epidemia di ebola della storia, che ha ucciso finora oltre 1.200 persone. Tra le tante cose che John Moore ha fotografato, ci sono anche le preghiere in riva all’Oceano Atlantico di alcuni appartenenti alla Chiesa di Aladura, una delle chiese indipendenti africane, comunità cristiane fondate dagli africani e indipendenti dalle organizzazioni missionarie. I fedeli hanno spiegato che stavano chiedendo a Dio di liberare il paese dall’epidemia.
    Moore ha lavorato per quindici anni all’Associated Press, prima di passare a Getty Images nel 2005: all’epoca viveva ad Islamabad, in Pakistan, dove fotografò l’assassinio dell’ex primo ministro Benazir Bhutto (qui ci sono alcune delle sue fotografie). Nel corso della sua carriera ha lavorato a reportage fotografici in più di 75 nazioni diverse, mentre negli ultimi anni si è occupato soprattutto della condizione degli immigrati negli Stati Uniti. Moore ha vinto quattro volte il World Press Photo e una volta la medaglia Robert Capa, per il suo lavoro in Pakistan. Nel 2005 faceva parte del team dell’Associated Press che vinse il premio Pulitzer per la copertura della guerra in Iraq
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  6. Nel 2008 una statua di Padre Pio ha “salvato” una strada tra Pompei e Scafati:

    “Il Messaggero”, 27 giugno 2008, QUI

    NAPOLI, SANTI E MADONNE SCACCIANO I RIFIUTI
    Se è l’unico deterrente per non far diventare l’uscio di casa propria un immondezzaio, allora il ricorso al soprannaturale ben venga. Così hanno pensato, con ottimi risultati alcuni cittadini di Boscoreale, in provincia di Napoli, per mesi e mesi oltraggiato dall’emergenza rifiuti e che ora inizia a intravedere una, seppur precaria, uscita dal tunnel.
    Ha iniziato il titolare di un supermercato di via Passanti, una lunga arteria che collega con Pompei, Scafati e Terzigno. Proprio davanti al cancello d’ingresso c’erano alcuni cassonetti che nel tempo, con la mancata raccolta, si sono trasformati in mini discariche a cielo aperto, tra auto in fila e negozi di prodotti alimentari. Così un bel giorno quei cassonetti sono scomparsi e al loro posto, e al posto dell’immondizia, tutti spariti, è comparsa una grande statua di Padre Pio. È come se da quel momento quel luogo fosse sotto protezione, di sicuro nessuno ha pensato di andare a depositare rifiuti. Da qualche giorno, stesso fenomeno in via Gesuiti. Anche qui immondizia e puzza a due passi da un Santuario: fino a quando non hanno pensato di mettere una statua della Madonna. «Certo molto meglio Padre Pio e l’Immacolata – dicono a Boscoreale – che quella spazzatura nauseabonda»
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    Oggi è uscita la notizia di un Padre Pio che sta “proteggendo” un vicolo di Capodimonte a Napoli:

    “Corriere del Mezzogiorno”, 12 settembre 2014, QUI

    UNA CITTA’ DA MIRACOLI: IL PROBLEMA RIFIUTI RISOLTO CON UN BUSTO DI PADRE PIO
    La singolare storia in una tesi di laurea sulla forza del sacro e la nostra debolezza di senso civico
    di Sebastiano Maffettone

    La storia sembra troppo bella per essere vera. Talmente piena di simboli da essere più letteratura che realtà. Ma è successo a Napoli, non molto tempo fa, e ricorda altri casi analoghi riportati dai giornali. A me è stata raccontata da uno studente sveglio e attendibile, Michelangelo Aveta. Vicino a casa sua, a salita Moiariello, nei pressi di un’entrata abbandonata dell’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, un pezzo di strada era diventato deposito di spazzatura a cielo aperto, deposito in cui si trovava di tutto a cominciare da un mare di sacchetti di plastica per andare a lavatrici a motorini sversati di notte da misteriosi autisti.
    Il fetore dei rifiuti e i topi invadevano il vicolo e i suoi dintorni in maniera insopportabile. Non è difficile immaginare l’iter abituale di reclami all’Asìa, petizioni e segnalazioni politiche. Quasi superfluo aggiungere che, nonostante la vigoria e la continuità della protesta, non si riusciva a fermare lo scarico maleodorante e pestifero di rifiuti. Fin quando, circa un anno fa, a qualcuno (a tutt’oggi misterioso) non venne l’idea geniale. Quella che avrebbe risolto il caso: piazzare una statua di Padre Pio a guardia del vicolo. Quasi a dire che quando versi i rifiuti qualcuno ti guarda dall’alto. E ti giudica.
    Come ben ha scritto il mio studente nella tesi di laurea — in cui cita il caso in questione — «dove non è riuscita la legge, mancando del tutto lo spirito di condivisione delle regole del vivere civile, è riuscito il timore irrazionale delle punizioni del Santo». Si può anche essere meno laici di così, e sostenere che il richiamo del sacro funziona ancora, e mette le persone di fronte alle proprie responsabilità. Come tante volte è avvenuto nella storia. Ma, come i nostri lettori comprenderanno bene, il problema al fondo non è questo.
    Piuttosto, dovremmo chiederci: è mai possibile che nel 2014 per ottenere la decenza minima e il rispetto di qualche regola elementare dobbiamo aspettare l’arrivo del santo? È ammissibile che per evitare che i rifiuti ci sommergano dobbiamo sperare che avvenga una sorta di miracolo? Sono ovviamente domande retoriche. Qualcosa del genere non è possibile e non è ammissibile.
    Può essere che ci siano quelli che sperano di cancellare il debito pubblico giocando al lotto o di mantenere l’ordine pubblico con l’aiuto della camorra. Ma a tutto questo folklore fuori posto noi dobbiamo opporre la forza modesta della ragione pubblica. Questa ci dice che per evitare le storture di cui stiamo parlando invece dei miracoli servono istituzioni pubbliche che funzionino, buon senso diffuso, e il sostegno dell’etica pubblica.
    L’etica pubblica è quella che tiene assieme cittadini e non sudditi, persone che hanno senso di sé e rispetto per gli altri e che su questa base osservano le leggi e tutelano i beni comuni. Qualcuno dirà: «ma si tratta un wishful thinking, di una speranza senza possibilità di realizzarsi». Forse questi scettici non hanno tutti i torti. Ma allora la munnezza li seppellirà, e con loro tutti noi. E la fetida metafora diventerà realtà

  7. Pagina facebook di Luca Fiorentino, 19 settembre 2014: QUI

    per quanto io possa odiare tutta quella serie di scaramanzie, feticci e devianze ridicole chiamata religione, provo la massima stima nei confronti di chi bell e buono ha messo in mezzo la storia del sangue di san gennaro.
    san gennaro è un santo la cui vita è avvolta nel mistero.
    qualcuno pensa che sia nato a benevento, qualcun altro afferma con sconcertante sicumera di averlo visto uscire da sotto al cappellino di gigione.
    oltre a ciò, si sa veramente poco di un martire presumibilmente vissuto ai tempi delle elementari di iva zanicchi.
    ma della storia di faccia gialla – chiamato così per l’ittero dopo una zuppa di cozze fuori all’orto botanico – in realtà non gliene importa niente a nessuno.
    la gente vuole sapere solo se il sangue nelle teche si è sciolto o no.
    perchè se si scioglie è di buon auspicio per neapolis.
    (infatti ultimamente s’è sempre liquefatto – e non a caso la nostra città attraversa decenni di rinascimento, tanto benessere diffuso, felicità e tranquillità.)
    e allò a prima mattina già vedi migliaia di persone che si avvicinano al duomo.
    molti ci vanno a chiedere le grazie, so convinti di sto fatto.
    sisi, perchè un dio misericordioso, lo nota il fatto che ti sei scetato presto e che stai pregando a pappagallo da ore verso il mezzobusto di uno che non si sa manco se è mai esistito, in una cattedrale che se metti su ebay un solo lampadario, gli puoi far servire l’ostrica tutti i giorni alla mensa dei poveri fuori piazza mercato.
    prega, devi pregare.
    soprattutto se lo fai in deteminati giorni speciali, tipo quello di oggi – che è un pò come la finale dei mondiali per un calciatore, perchè è sicuro che sugli spalti ci saranno tutti gli addetti del settore che ti stanno osservando, quindi cerchi di impegnarti più che puoi accussì ‘a gent ric merò guadd llà comm è credent.
    però, se voglio essere cinico, e cercare di farmi piacere pure i bancarielli di souvenir all’interno del duomo, in realtà è così che questa città deve risorgere.
    cioè sfruttando leggende antiche, storie finto-esoteriche, munacielli, gli assistiti, le scaramanzie – così come all’estero attorno agli aneddoti sugli elfi e sui mostri nei laghi ci costruiscono musei e gift-shop.
    dobbiamo fare tutti finta, ma tutti quanti, che certe cose siano veramente vere, per creare un indotto turistico attorno a speculazioni che lucidamente sono boiate clamorose.
    e quindi magari il weekend di san gennaro, la gente da niu iork verrà a napoli solo per vedere orde di fanatici invasati che fanno cose assurde, e cacheranno i danari.
    daddy… why is that granny screamin… omg… it’s fuckin insane.
    yeah son… it’s folklore… quiet… oooh so cuuuute… how much is this padreppio’s statuette with sunglasses.
    tutta una città impegnata in un grande teatro a cielo aperto.
    tutti teatranti.
    chi canta le hit storiche di ninodangelo, chi simula un vero scippo napoletano, chi spiega la procedura per aprire una patatineria, chi impasta una pizza suonando un mandolino.
    tutti teatranti.
    in modo che mettiamo una tassa di soggiorno, tipo biglietto d’ingresso per uno spettacolo, che poi ci spartiamo noi che viviamo in centro.
    perchè al momento teniamo un sacco di usanze assurde – piglia a quello giù da me che ogni sera, nonostante uozzapp, msn, feisbuc, skype, telefonino, citofoni e barracchini, usa ancora urlare come un madonnaro dal livello strada per far affacciare suo fratello al quarto piano.
    cioè uagliù.
    dobbiamo iniziare a monetizzare tutt sti ccacate senza logica.
    il folklore, quei gesti carnali, quei fatti ca nuje simm accusì, pepperè pepperè.
    osinò stamm facenn ‘e strunz a vacant, capì.
    ciao
    “.

  8. “Studio”, 20 ottobre 2014, QUI

    EBOLA: COME GLI ANTROPOLOGI AIUTANO A COMBATTERLA
    Come si ferma un’epidemia in paesi dove c’è chi è convinto che le epidemie siano causate dalle streghe, non dai virus? Per questo a fianco dei medici alcune organizzazioni internazionali hanno voluto anche antropologi.
    di Anna Momigliano

    Si racconta che, a chi gli chiedeva di spiegare il significato della stregoneria in alcune culture africane, Edward Evans-Pritchard, uno dei mostri sacri dell’antropologia che per necessità di sintesi potremmo definire “il fondatore dell’antropologia sociale”, raccontasse questo aneddoto. Nel corso delle sue ricerche in Africa centrale, in quello che oggi è il Sudan meridionale, che avrebbero portato alla stesura di Stregoneria, Oracoli e Magia tra gli Azande (edito in Italia da Raffaello Cortina), gli capitò di scambiare due chiacchiere con un tizio di etnia Azande che, pur essendo istruito, condivideva le credenze del suo popolo in materia di stregoneria: sono le streghe e gli stregoni che provocano le malattie. Lo scambio di battute somigliava a questo: «suvvia, sai benissimo che le malattie sono causate da germi, che se tuo figlio dovesse ammalarsi sarebbe perché ha contratto un virus, oppure un batterio, non perché uno stregone glie l’ha tirata»; «è vero, la scienza spiega come si contrae un’infezione, perché si muore, ma non riesce a spiegare perché proprio mio figlio».
    Tutto questo per dire che il rapporto tra cultura e malattia è piuttosto complesso. Che le credenze popolari possono convivere con la conoscenza della medicina moderna, perché si basano su convincimenti profondi che vanno al di là della mera superstizione, talvolta radicati là dove la razionalità da sola non riesce a fornire tutte le spiegazioni (la scienza può spiegare perché ci si ammala, ma può spiegare perché a morire è mio figlio e non quello di un altro? no, non può. In Occidente lo chiamiamo fato o sfortuna, altrove la chiamano stregoneria). Che il perdurare di queste credenze popolari, anche nel bel mezzo di un’epidemia di ebola e con tutto ciò che comporta, non può essere liquidato come semplice ignoranza, come un qualcosa da estirpare, così, in nome della modernità. Le culture locali – e in particolare gli aspetti legati alla gestione della malattia, della morte, e di conseguenza dell’igiene – sono una faccenda seria. È necessario conoscerle a fondo, se si vuole ottenere risultati concreti, la collaborazione della popolazione. È vero, esistono alcune usanze che non possono convivere con il tentativo di fermare un’epidemia gravissima. Ma proprio perché è necessario ed urgente cambiarle, diventa ancora più importante conoscerle a fondo e trattarle con rispetto.
    È per questo che, oltre allo staff medico-sanitario, alcune organizzazioni internazionali presenti nei paesi più colpiti dall’epidemia di ebola hanno deciso di chiamare sul campo degli antropologi. Ed è per questo che alcuni sostengono che ce ne vorrebbero di più.
    In alcuni villaggi la popolazione s’era convinta che fossero gli stessi medici a diffondere il virus.
    La Guinea è stato il primo paese colpito da questa epidemia, già nel dicembre del 2013: da oggi lì si sono verificati più di 1400 casi e più di ottocento morti. Immediatamente si erano precipitate sul campo due importanti organizzazioni mediche: Medici Senza Frontiere (Médecins Sans Frontières) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (spesso noto con l’acronimo anglosassone WHO, World Health Organization). Nella prima fase dell’intervento, che poi è quello più cruciale nel tentativo di fermare la diffusione del virus, però la popolazione si rifiutò di collaborare con gli operatori sanitari: «In alcuni villaggi le persone hanno nascosto i loro malati, hanno opposto resistenza impedendo alle organizzazioni umanitarie di fare il loro lavoro», ha raccontato un biologo di Msf. «La [mancata] cooperazione da parte della popolazione è stato uno dei principali problemi», ha confermato, Amadou Sall, il direttore scientifico della divisione africana dell’istituto Pasteur. Il risultato è stato che il virus si è diffuso più velocemente di quanto non sarebbe avvenuto se la popolazione locale si fosse “fidata” dei medici.
    Che alcune epidemie generino il panico, e che il panico si traduca in una mancata collaborazione col personale medico è purtroppo piuttosto comune. Nel caso specifico della Giunea però s’erano aggiunte incomprensioni culturali che sarebbero state evitabili, con la presenza di una squadra di antropologi. In alcuni villaggi la popolazione s’era convinta che fossero gli stessi medici a diffondere il virus. Il risultato, come riporta il New York Times, è che in alcuni casi medici e infermieri sono stati accolti a colpi di machete.
    La convinzione nasceva dalla credenza nella stregoneria come causa principale dell’epidemia, ma si è potuta diffondere anche a causa di un modo di comunicare, da parte de medici occidentali o “occidentalizzati”, che non teneva conto della cultura locale. Il fatto che le strutture per i contagiati fossero chiamate “centri di isolamento” (anziché, per dire, “centri di cura”) ha rafforzato la convinzione che fossero luoghi dove gli “stregoni” finivano il loro lavoro, ossia uccidere i malcapitati. Vedendo che chi entrava in quei centri poi spesso non usciva, la gente ha rafforzato ulteriormente questo suo convincimento.
    Il fatto poi che la popolazione fosse restia a condurre i malati in questi centri ha non solo facilitato diffusione del virus, ma anche aumentato la mortalità tra i contagiati: si stima infatti che l’ebola abbia una mortalità del 64% per chi riceve cure adeguate, che però sale del 71% per chi non viene trasportato nei centri appositi. Poi s’è deciso di coinvolgere alcuni antropologi. Che hanno suggerito di cambiare il nome alle strutture e spiegare bene alla popolazione che chi entrava in quei centri aveva più possibilità di sopravvivere rispetto a chi restava a casa: insomma, di concentrare la comunicazione sulla cura dei malati, più che sulla sicurezza degli altri e il contenimento dell’epidemia. I rapporti tra popolazione locale e staff internazionale sono migliorati. Paradossalmente, almeno da un punto di vista occidentale, incentrare la comunicazione sull’aspetto della cura al malato – piuttosto che sul rischio di contagio – ha funzionato.
    Un altro problema riguarda poi la sepoltura dei morti. Data la virulenza dell’ebola, seppellire le vittime immediatamente ed evitare di toccare i cadaveri è fondamentale. Il problema è che in alcune culture della Guinea il contatto fisico col defunto è considerato importantissimo. Da un lato, è evidente che evitare nuove morti e contenere il contagio è la priorità. Dall’altro, tuttavia, bisogna stare attenti a non offendere le culture locali, proprio per evitare una rivolta da parte della popolazione contro i medici. Alcuni antropologi hanno proposto una soluzione di compromesso: permettere ai parenti non di toccare i loro morti, ma almeno di vederli. E, se possibile, di lanciare oggetti nella loro tomba onde cercare di ricreare qualche contatto fisico, intimo. Per il momento pare stia funzionando.
    Si sono verificati problemi simili in alcune zone della Sierra Leone, altro paese molto colpito. La difficoltà principale sta nella sepoltura… delle donne sposate. Nella cultura del popolo Mende, una delle due principali etnie del paese, è infatti costume diffuso seppellire i morti nel loro villaggio d’appartenenza.
    Per tradizione gli uomini vivono nel loro villaggio natale, mentre le donne, che in più di metà dei casi sposano persone di altri villaggi, si trasferiscono in quello del marito. Affinché una moglie venga considerato a pieno titolo membro del villaggio del marito, il matrimonio deve essere finalizzato. Nella cultura Mende il matrimonio infatti è visto più come un lungo processo che una cerimonia: affinché le nozze siano considerate “finalizzate” il marito deve adempire a una serie di obblighi nei confronti della famiglia della moglie, insomma pagare una specie di “dote a rate”, che può richiedere anni, se non una vita intera. Il risultato è che molte donne, anche sposate da anni se non addirittura da decenni, si trovano in uno stato di “matrimonio incompleto”… e di conseguenza non sono membri del villaggio. Se una di loro muore, il suo cadavere deve essere trasportato nella sua comunità di origine.
    Tutto questo, ovviamente, è incompatibile con il contenimento dell’epidemia di ebola e le esigenze sanitarie che ne derivano. I cadaveri sono infetti e vanno seppelliti subito: trasportarli – spesso su mezzi di fortuna, e con dei viaggi che durano giorni interi – equivale diffondere il virus. Anche qui, come nel caso del contatto fisico coi defunti nella Guinea, la risposta non può essere mantenere una tradizione a discapito della salute pubblica, ma piuttosto trovare se possibile una soluzione di compromesso. O se non altro tentare di convincere i locali ad abbandonare la tradizione utilizzando le parole giuste e rispettose. Conoscere le tradizioni, per quanto apparentemente irrazionali e incompatibili con la medicina moderna, è importante proprio per diffondere meglio la medicina moderna
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  9. Chiara Spagnolo riferisce su “Repubblica TV” (22 novembre 2014) di un video di 3 minuti in cui è inscenata una processione e dei funerali per la “peste degli ulivi” in Salento. Si tratta di una vera e propria risposta culturale ad un disastro in corso, un rituale in emergenza in cui, tuttavia, non è facile distinguere l’uso mediatico del sacro dallo spirito religioso vero e proprio. Tra i promotori dell’iniziativa c’è anche la Diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca: “Un mesto corteo funebre in campagna, preghiere recitate con gli occhi pieni di lacrime, donne vestite a lutto e persino il parroco che effonde l’incenso nell’aria: è il funerale degli ulivi, immortalato in un video commissionato dalla Diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca, che da giorni spopola sul web. Un’iniziativa che la curia ha voluto e promosso attraverso la Fondazione monsignor Vito De Grisantis, per promuovere il dibattito sulla Xylella fastidiosa, “il cancro degli ulivi”, “che si è già diffuso su 40.000 ettari, ha colpito un milione di alberi in Salento – tanti, troppi” come è scritto nei titoli di coda del mini-cortometraggio realizzato da Antonio Scarcella e Michele Rizzo con l’aiuto di Laura Campanile per Iorec produzione. Il video è girato tra il paese di Tiggiano e l’agro di Gallipoli, ovvero le zone più colpite dal batterio killer, e mostra scene di vita quotidiana di anziani salentini, per i quali la morte dell’ulivo è come quella di una persona cara. Di fronte alle foglie seccate dalla xylella le lacrime scendono copiose e bagnano i visi segnati dalla fatica, negli abbracci le donne cercano consolazione per la perdita e ai piedi dell’albero viene infine posta una corona di fiori, per salutarlo come se fosse un figlio“: VIDEO.

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