In memoria di chi grida “Forza Vesuvio”

Ieri, 25 dicembre 2011, è morto Giorgio Bocca. Su tutti i giornali sono fioccati ricordi, apprezzamenti e necrologi coccodrilleschi; alcuni, però, hanno celebrato la memoria del famoso giornalista tenendo a mente ciò che scriveva di Napoli e del Sud. Ad esempio, in una puntata di Che Tempo Che Fa, alla domanda di Fabio Fazio (“Lei s’è occupato di Napoli. Qual è una soluzione possibile, secondo lei? C’è?”) rispose sorridendo: “Sa… i leghisti dicevano Forza Etna, Forza Vesuvio… forse è un po’ esagerato…”.
Non approfondisco questo tema – che riguarda dinamiche storiche ben più antiche del rapporto tra Savoia e Borbone – ma prendo spunto da un post di Leonardo per raccogliere articoli sulla “irrazionalità” di chi abita intorno al Vesuvio vista e raccontata dall’esterno (in genere dal Nord).

“Leonardo”, 26 dicembre 2011, qui

UN GIORNALISTA INDICA UN VULCANO
Bocca insostenibile

Credo che i meridionali abbiano effettivamente qualche diritto di sentirsi offesi da Giorgio Bocca, che davvero scrisse su di loro cose affrettate e imprecise. Il suo disprezzo, davvero malcelato, non era occasionale: ha ragione Zambardino, esso rappresenta bene l’atteggiamento di una cultura tutt’altro che minoritaria e provinciale, tant’è che Bocca continuò a mostrarlo anche quando terminò la breve infatuazione per la Lega. Bocca è anche in questo caso un’epitome della storia italiana: un piemontese laico e democratico che sbarca nel sud ma non lo capisce, o meglio non capisce cosa ci sia di salvabile, e alla fine – complice la vecchiaia, che sgrava il fardello di speranze a lungo termine – si ritrova a dire Forza Vesuvio
Di questo fanno bene i napoletani a indignarsi, mentre concludono le loro celebrazioni natalizie – magari quest’anno un po’ più sobrie e austere – e si accingono a testare una volta in più i rodatissimi piani di evacuazione che dovrebbero mettere in sicurezza mezzo milione di abitanti nel caso il Vesuvio esploda davvero, visto che è tutt’altro che spento, anzi: la quarantennale eruzione è in ritardo di parecchio, e a questo punto qualsiasi cosa succeda potrebbe succedere piuttosto alla svelta e fare davvero molti danni. È curioso che nessuno ne parli mai. Di Bocca e dei suoi peggiori discepoli del nord sappiamo cosa pensare: è ingiusto aspettarsi informazione su un vulcano da chi per il vulcano fa il tifo. È più strano che ne parlino poco i meridionali, visto che il rischio di nubi ardenti e lapilli sulla superficie di popolosi centri abitati collegati da strade occluse dallo sverso abusivo di rifiuti
…Voi, per esempio, che vi state toccando in questo momento, ecco, sì: Bocca non perdeva tempo a cercare di capirvi. Vi disprezzava. Buon anno, se non vi è di malaugurio.

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ALTRI ARTICOLI:
– Leonardo Tondelli, Terremoto a Napoli?, 12 aprile 2010: qui
– Leonardo, Il condominio tra i vulcani, 15 aprile 2009: qui

6 thoughts on “In memoria di chi grida “Forza Vesuvio”

  1. “Ho una teoria” (blog su “L’Unità”), 12 aprile 2010: http://www.unita.it/rubriche/ho-una-teoria/terremoto-a-napoli-1.14279?listID=1.14016&pos=9

    TERREMOTO A NAPOLI?
    di Leonardo Tondelli

    Quanti terremoti ci sono stati in Italia negli ultimi dodici mesi? Almeno undici percepiti senza strumenti. Dopo quello spaventoso dell’Aquila di un anno fa, a settembre la terra ha tremato di nuovo in Abruzzo; nello stesso mese scosse di magnitudo 4 si sono verificate nel Mugello, al largo di Cefalù e nelle Marche, dove c’è stato un nuovo sisma in gennaio. In dicembre c’erano state scosse in provincia di Perugia e nella zona Etnea, interessata da un altro sisma a inizio di aprile. Fin qui siamo a nove terremoti. E gli altri due?
    Gli altri due hanno qualcosa di particolare. Non sono stati percepiti da alcun sismografo, eppure qualche danno lo hanno fatto: nessuna vittima, per fortuna, ma costituiscono un pericolo da non sottostimare. Sono i terremoti-bufala, che non si propagano attraverso la crosta terrestre, ma grazie ad annunci anonimi diffusi via sms o su internet (ma anche attraverso le chiacchiere da bar). La prima scossa-bufala viene avvertita dalla Protezione Civile marchigiana nell’ottobre scorso, quando il centralino comincia a ricevere chiamate di cittadini spaventati (soprattutto giovani) che chiedono informazioni su un terremoto “devastante” che avrebbe colpito il Piceno il 27 ottobre.
    La voce incontrollata speculava sulla paura sperimentata durante la scossa del mese precedente; benché palesemente falsa (non è possibile prevedere una scossa, addirittura con giorni di preavviso) era curata nei dettagli: si parlava di “una scossa di magnitudo 5.4 sulla scala Richter davanti a Porto San Giorgio, con effetti nelle province di Fermo e Ascoli Piceno”. A conferire un’aura di scientificità, veniva evocato Giampaolo Giuliani, il controverso tecnico abruzzese che ha più volte dichiarato di aver messo a punto un metodo scientifico per prevedere i terremoti. Giuliani smentì immediatamente di aver previsto e di poter prevedere scosse così lontane dal raggio dei suoi strumenti. Il terremoto in effetti non ci fu, e la bufala svaporò. Soltanto un brutto scherzo?
    La scossa-bufala colpisce di nuovo un mese fa, stavolta all’ombra del Vesuvio, e fa parlare i cronisti di psicosi collettiva. Ancora una volta viene diffusa una data precisa (il 12 marzo), anche attraverso un video su Youtube. Ancora una volta viene tirato in ballo Giuliani, che smentirà prontamente. L’Osservatorio Vesuviano, tempestato di telefonate, si affretta a pubblicare un messaggio per rassicurare la popolazione: troppo tardi. A Torre del Greco il 12 marzo alcune scuole restano deserte; a Ercolano si fa incetta di beni di prima necessità nei supermarket.
    Cosa c’è dietro a simili scosse “del quarto grado bufala”? Per Giuliani si tratta di un tentativo di gettare discredito sul suo lavoro. Per Paolo Attivissimo, giornalista e storico cacciatore di bufale su internet, dietro simili fenomeni di psicosi collettiva c’è la cattiva educazione scientifica degli italiani, “la cultura dell’antiscienza”, di cui almeno in parte è responsabile la televisione (“la gente viene imbottita di scemenze da trasmissioni che spacciano gli oroscopi per fatti assodati, raccontano di rapimenti alieni come se fossero realtà conclamata, blaterano di scie tossiche lasciate dagli aeroplani”). In effetti oggi l’italiano medio dispone di tecnologie (sms, internet, video) che gli consentono di essere raggiunto dagli allarmi più strampalati, ma non del senso critico necessario per metterli in discussione.
    Pare che nelle scuole vesuviane siano stati gli stessi insegnanti a diffondere l’allarme: proprio coloro che per primi dovrebbero sapere e spiegare che non si può prevedere la data di un terremoto (nemmeno volendo dar credito alle teorie di Giuliani, tuttora in attesa del vaglio della comunità scientifica). Del resto, in materia di terremoti, qualsiasi rivoluzionaria teoria sulla previsione a breve termine non otterrà mai i risultati di una reale cultura della prevenzione del rischio: quella che in Cile ha permesso che un terremoto centinaia di volte più intenso di quello di Haiti facesse seicento morti e non duecentomila.
    Il terremoto-bufala del 12 marzo però si può anche leggere come un inconsapevole, beffardo grido di allarme. Perché se è vero che i terremoti non si possono prevedere, a Napoli qualcosa di relativamente prevedibile c’è, ed è il Vesuvio, vulcano esplosivo attivo che gli esperti osservano con preoccupazione. Quando l’eruzione spettacolare del 1944 concluse una fase di attività tutto sommato regolare che datava dal Seicento, l’edilizia abusiva prese di mira il cono del vulcano. Ma nel sottosuolo il Vesuvio continua a covare i suoi vapori ardenti. Gli esperti non si azzardano a fornire date per una prossima eruzione, ma sono consapevoli di una cosa: evacuare i 550.000 abitanti della zona rossa sarà un incubo logistico senza precedenti. La statale 268, unica via di fuga per migliaia di residenti, è parzialmente ostruita dagli sversamenti di rifiuti delle discariche abusive. Di fronte a una così plateale negazione del pericolo, condivisa da cittadini e autorità (e cosche), la piccola scossa-bufala del 12 marzo è poca cosa. Ma potrebbe anche essere il primo sussulto di una coscienza collettiva: ancora pre-moderna, è vero, facilmente influenzabile e plagiabile, pronta all’isteria. Ma almeno adesso sappiamo che la terra trema: ce lo mostrano su youtube, ce lo ricordano via sms. Forse è preferibile l’allarmismo delle scosse-bufala all’ignavia di chi ha lasciato che i rifiuti si accumulassero sulla via di fuga. Passato il panico, forse nella coscienza di qualcuno resterà lo spazio per riflettere. Questa, almeno, è una teoria
    .

    • Sulla presunta previsione sismica nel napoletano del marzo 2010, ecco alcune cronache del tempo:

      “Il Mattino”, 11 marzo 2010, http://www.ilmattino.it/articolo.php?id=94269

      NAPOLI, PSICOSI DA TERREMOTO PER UN VIDEO SU YOUTUBE

      di Rosa Palomba

      NAPOLI (11 marzo) – Ricordi di famiglia e bagagli. In fuga dal pericolo, di corsa verso un rifugio. Per salvarsi da cosa? Dalla paura di un imminente terremoto che starebbe per abbattersi in Campania. Via dalla terra che tremerebbe domani, secondo chi attraverso Youtube ha diffuso un video-annuncio.
      Al momento, l’unica cosa allarmante è che i residenti si siano fatti travolgere dal panico dell’onda sotterranea in arrivo. «Gravissimo che questa boutade sia finita nelle scuole – dice Marcello Martini, direttore dell’Osservatorio Vesuviano – gli insegnanti ne hanno parlato con gli allievi che sono tornati a casa impauriti. Per Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia e Stromboli, non c’è preoccupazione. Si tratta di un falso allarme, come da ore ripetiamo alle centinaia di persone che stanno telefonando all’Osservatorio e attraverso il sito http://www.ov.ingv.it ».
      Macchine ferme anche alla Protezione civile di Napoli e di Roma. «È un inqualificabile scherzo», dice Edoardo Cosenza, preside della facoltà di Ingegneria della Federico II di Napoli, esperto di Sismica.
      La psicosi «fine del mondo» annunciata per il 2012; le catastrofi che di recente hanno realmente stravolto Cile, Haiti e Turchia, hanno scatenato anche la fantasia del popolo di Facebook e infiammato l’immaginario collettivo: così, al personaggio apparso in Youtube, è stato subito dato il nome di Giampaolo Giuliani, il tecnico di Fisica dei laboratori nazionali del Gran Sasso, al centro di polemiche per aver previsto il sisma in Abruzzo: «Smentisco categoricamente», dice Giuliani.
      Se davvero in queste prossime ore ci fosse un sisma? Sarebbe pura casualità, dunque. Chi crede alla profezia della rete? Forse gli alunni, pronti a disertare i banchi
      .

      COMMENTI:

      c’e da preoccupare
      ma noi gia’ stiamo in macchina coi nostri bambini datemi una risposta ci dobiamo preoccupare?
      commento inviato il 12-03-2010 alle 14:26 da lena

      psicosi terremoto da you tube
      Penso che tutti coloro che caricano video o notizia su you tube o comunque in internet, dovrebbero dichiarare le proprie generalità in modo da poter essere rintracciati ed eventualmente – se è il caso – essere perseguiti legalmente e penalmente. In questo caso,infatti, si profila il reato di “procurato allarme”. Quando si finirà con questa incredibile diffusione di filmati (corse automobilistiche e motociclistiche illegali, ingiurie verso handicappati, invasioni di alieni ecc.?). E’ ora che si regolamenti ciò altrimenti internet diventa davvero una torre di babele.
      commento inviato il 12-03-2010 alle 10:46 da FEDEARGENIO

      Bisognerebbe preoccupari sul serio o meglio occuparsene.
      Tra il rischio vesuvio e possibili terremoti, la prevenzione della protezione civile che pur riguarda milioni di abitanti di Napoli e provincia, e’ inesistente.
      A sentire i responsabili e’ tutto pronto, ma se i cittadini non hanno percezione e non sono stati educati alla cultura dell’evacuazione ordinata non potranno fare altro che panicare quando l’ora dell’emergenza arrivera’.
      commento inviato il 12-03-2010 alle 02:12 da Deltawingszeta

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      ALTRE FONTI:
      JulieNews;
      PositanoNews;
      NapoliToday;
      Corriere del Mezzogiorno.

  2. “Leonardo”, 15 aprile 2009, http://leonardo.blogspot.com/2009/04/il-condominio-tra-i-vulcani.html

    IL CONDOMINIO TRA I VULCANI
    Attenzione, questa non è un’esercitazione (è l’Italia)

    Si dice di noi italiani che siamo sospesi fra Europa e Africa; il concetto merita un approfondimento geologico. Europa e Africa in effetti non sono due signore che si incontrano pacificamente in un meeting interculturale: si tratta di enormi placche tettoniche che si sfregano contro, e l’Italia è il risultato di questo morboso strusciamento tellurico. Una terra sismica, con centinaia di terremoti storicamente accertati, e noi siamo quelli che ci vivono sopra. Non l’abbiamo scelto noi – ma è vero che molti di noi, lungo i secoli, hanno deciso di andarsene: verso terre più ricche, più accoglienti, e magari più prevedibili.
    Allora è possibile che in un qualche modo nel corso del tempo l’Italia si sia scelta i suoi italiani. Voglio dire (forzando parecchio il povero Darwin) che alcuni caratteri nazionali che siamo abituati a identificare come “pregi” e “difetti” sono semplicemente i più adatti a farci vivere qui piuttosto che altrove.
    Fate finta che l’Italia sia un condominio. In una zona sismica. Con qualche vulcano nei pressi. Voi lo comprereste un appartamento? Magari al quinto piano? Magari no. Eppure, se ci pensate bene, lo avete fatto. O lo hanno fatto i vostri genitori per voi. Può darsi che infatti stiate pensando di andare altrove: avete i vostri buoni motivi. Ma questo significa che il vostro appartamento resterà sfitto, finché non arriverà da un rione più povero (e ce ne sono, tutt’intorno) qualche persona un po’ più rassegnata di voi. Col passare degli anni, e dei secoli, il condominio tra i vulcani avrà selezionato un certo tipo di umanità.
    Di questa umanità si possono dire alcune cose buone: essa è generalmente solidale. Per forza, convive con disgrazie ed emergenze. È generosa, anche nella penuria di mezzi. L’Italia non è il posto migliore dove passare una serata, ma non diventa il far west appena qualcuno stacca la luce (come può accadere in Paesi più “civili”).
    L’altra faccia della medaglia sono le superstizioni, i piagnistei, utilizzati come valvola di sfogo ogni volta che ci va male, e ci va male spesso; l’affidarsi alla Provvidenza, non tanto come principio metafisico ma più spesso come statua di gesso o uomo di bronzo (o, più recentemente, cerone) da portare in processione. Tutto questo siamo liberi di trovarlo insopportabile, ma è un fatto che lo sopportiamo, tant’è che siamo qui; magari poi ce ne andremo, o sarà nostro figlio a farlo, dopo averci chiesto conto dell’appartamento che gli abbiamo lasciato al quinto piano.
    “Ma siete stati pazzi a comprare qui”.
    “Però c’è un bel paesaggio”.
    “Che bel paesaggio? È un vulcano”.
    “Ma è spento da 60 anni”.
    “Perché l’eruzione è in ritardo! E sarà esplosiva! Ci sono resoconti storici! Scappate con me finché siete in tempo!”
    “Ma no… ma che modi… vedrai che per altri vent’anni resiste…”
    “E dopo?”

    Ecco, a caratterizzarci è soprattutto l’incapacità di farci questa domanda: “e dopo?” Può darsi che il vulcano non erutti per un po’, che la terra non tremi, che la frana non frani: ma dopo? Perché se non succederà a mio figlio succederà al suo – ma io non sono geneticamente selezionato per farmi questa domanda, altrimenti mi sarei già trasferito in Germania da due generazioni, mi chiamerei Leonhardt e verrei solo in agosto a scuotere la testa di fronte alla sagoma del Vesuvio: quanto ziete pazzi foi italiani a costruire qvi. Appena fulcano tremare, zeicentomila perzone da efacuare? Dofe? Però ziete tanto pitoreski.
    “Nessuno ha offerto istruzioni calme, rassicuranti, civili, informate”, scrive dall’Aquila il dottor Massimo Gallucci:

    La mia piccola storia assieme alle centinaia di storie di amici, mi ha insegnato che se avessi avuto una torcia elettrica sul comodino non mi sarei fratturato la colonna vertebrale, se avessi avuto un cellulare a portata di mano avrei chiesto aiuto per me e per il palazzo accanto, se molti avessero parcheggiato almeno un’auto fuori dal garage ora l’avrebbero a disposizione, se in quell’auto avessero (e io avessi) messo una borsa con una tuta, uno spazzolino da denti e una bottiglia d’acqua, si sarebbero tollerati meglio i disagi. Se si fosse tenuta una bottiglia d’acqua sul comodino, se si fosse evitato di chiudere a chiave i portoni di casa, se si fosse detto di studiare una strategia di fuga…. Pensate a chi è rimasto incarcerato per ore senza poter comunicare con l’esterno perché aveva il cellulare in un’altra stanza, o perché non trovava al buio le chiavi di casa, come le ragazze di un palazzo a fianco a me già semi sventrato: 6 ore sotto un letto, con la terra che continuava a tremare, perché la porta era chiusa a chiave, senza una torcia elettrica e senza cellulare per chiedere aiuto!

    Aggiungerei: pensate a chi non è stato e non sarà mai trovato perché aveva un affitto abusivo (stranieri e studenti, forse il 90% del centro dell’Aquila) e non aveva un cellulare caricato sul comodino. E quindi? Caso Giuliani a parte, perché la popolazione non è stata allertata per un semplice principio di precauzione?
    C’è una risposta sgradevole: la popolazione non è stata allertata perché gli italiani
    (e gli aquilani in particolare) devono considerarsi sempre allertati. Il cellulare sul comodino, la torcia elettrica nel cassetto, sono precauzioni che ognuno di noi dovrebbe prendere ogni notte. Da un punto di vista razionale potrei dire che uno sciame sismico non anticipa necessariamente una scossa come quella dell’Aquila; da un punto di vista emotivo (di italiano emotivo) aggiungo che lo scorso inverno mi è bastata una scossetta da nulla per dormire sul divano col telefono in mano. Vivere in Italia è questo e lo sappiamo: ci sono le regole (e non le applichiamo), le esercitazioni (e le prendiamo per buffonate)… ma se fossimo persone più razionali e apprensive forse non abiteremmo qui. Perché questa non è una terra per persone razionali e apprensive.
    Dovevate comunque allertarci, dicono. Anche in assenza di una previsione scientificamente accettata: per un principio di precauzione. Ma un aquilano che viene avvisato via tv o telefono della possibilità di uno scisma imminente non andrà a letto con un telefono e una torcia a portata di mano: più probabilmente abbandonerà la casa, scenderà in piazza (come s’era visto a Sulmona pochi giorni prima). Il tutto in attesa di una scossa che forse non ci sarebbe stata. O sarebbe potuta arrivare a 100 km. di distanza, in una località dove gli aquilani si fossero rifugiati. O qualche giorno dopo, proprio nel momento in cui gli aquilani decidevano di tornare a casa. A meno che gli aquilani non decidessero di andarsene definitivamente. Ma questo nessuno osa pensarlo. Già, perché nessuno osa?
    Osiamo noi. In base a un principio di precauzione, perché deve esistere L’Aquila? Una città di quasi centomila abitanti appoggiata su una faglia. Insediamento medievale, va bene, ma molte rocche medievali le abbiamo pian piano svuotate o trasformate in musei. L’Aquila invece è capoluogo regionale e sede universitaria. Venivano studenti da tutta Europa: anche lì, perché? Ok, gli erasmus sono inconsapevoli, ma gli italiani? Chi, potendo scegliere una sede un po’ lontana da casa, opterebbe per una falda sismica?
    Qualcuno prima o poi deve aver pianificato di mantenere un grande insediamento lì; la scelta di portarci la Regione e l’Università (fondamentale per l’indotto) l’avrà pur presa qualcuno; qualcuno quindi deve aver fatto uno di quei calcoli che sembra che gli italiani non facciano mai (perché c’è qualcosa di effettivamente osceno in un calcolo del genere). Il calcolo diceva che abbandonare quella terra sismica sarebbe costato di più di sopportare qualche catastrofe ogni tre-quattrocento anni; tanto la gente dimentica presto, e al limite chiederà conto al politico che si è appena insediato. Tanto peggio per quel signore; sempre che non sia abbastanza furbo da farsi inquadrare mentre soccorre la vedova e l’orfano, rivoltando la frittata in suo favore. E cosa vuoi che siano trecento morti, se tre secoli fa erano stati seimila: lo vedi che anche noi col tempo miglioriamo?
    Ma ora non vi basta più, volete essere pre-allertati. La terra vi tremava sotto i piedi e siete andati a letto, in case costruite con la sabbia: ma se Bertolaso vi avesse detto qualcosa un’ora prima… non resta che pre-allertare Napoli, a questo punto.
    In base allo stesso principio. Il Vesuvio nei prossimi anni esploderà, è chiaro. Nessuno può dirci quando, ma non ha senso restare lì ad aspettare il panico dell’ultimo momento. Ci sono testimonianze storiche abbastanza esplicite: intere città sommerse dai lapilli, nubi di gas roventi. Nei comuni alle pendici bisognerà intensificare le esercitazioni per l’evacuazione. Ma anche in città sarebbe meglio cominciare a dormire con cellulare e torcia a portata di mano. Naturalmente in tutta la provincia va verificato il rispetto delle norme antisismiche, perché vulcano e terremoti vanno a braccetto. Occorre cominciare a pensare a tutto questo e farlo subito.
    Oppure fingere che tutto sia sotto controllo e lamentarsi dopo, con le statue di gesso di turno. Ma forse è una falsa scelta, forse è l’Italia che ha scelto noi
    .

  3. Certo è che quando si parla di Napoli, per non dire del sud, tutti si ritengono in grado di pontificare la loro opinione. Spesso lo fanno con la certezza assoluta e tracotante del luogo comune. Solo quando neanche questo basta a dare risposte o a supportare le loro tesi, allora tutti, inesorabilmente, volgono alla furia sterminatrice del Vulcano.

    Ho trovato su ilmediano.it quest’articolo che potresti trovare interessante..

    http://www.ilmediano.it/aspx/visArticolo.aspx?id=15794

    • Condivido, Ciro. Molti che parlano della nostra città e della nostra terra (spesso dall’esterno, ma talvolta anche dall’interno) ne hanno una visione precostituita; ed è questo anche il caso di uno come Bocca che probabilmente dimostrava uno sguardo più acuto su altre realtà. Tuttavia, per quanto questi abbia espresso giudizi piuttosto superficiali e talvolta livorosi su Napoli e sul Sud, credo che le sue opinioni – prese nella loro essenza – debbano essere discusse e considerate per quel che probabilmente volevano essere: uno stimolo alla riflessione. Bisognerebbe evitare, però, il gioco dei “campanilismi contrapposti”, ovvero il ricorso a concetti vaghi quali “napoletanità” e “piemontesità”; oppure, al limite, bisognerebbe sforzarsi di definirli più approfonditamente, consapevoli che sono e saranno sempre semplici etichette destinate a sbiadirsi in poco tempo.
      L’articolo di Cimmino va in questa direzione e l’ho apprezzato molto; lo archivio copiandolo qui sotto.

      “Il mediano”, 27 dicembre 2011, http://www.ilmediano.it/aspx/visArticolo.aspx?id=15794

      GIORGIO BOCCA E LE AMARE VERITÀ SU NAPOLI
      Lo scrittore piemontese non ha mai lesinato critiche a Napoli, ai napoletani e alla “napoletanità”. Senza mai temere, spietatamente lucido.

      di Carmine Cimmino

      In Napoli Giorgio Bocca, “l’antitaliano“, vedeva uno dei paradigmi di quell’Italia corrotta, cinica, criminale, figlia degenere dell’antifascismo, che il caotico sviluppo economico degli anni ’60, il “Miracolo all’italiana“, aveva definitivamente depravato. Contro le storture di quel “miracolo“ Bocca emise la prima, durissima condanna in un articolo del gennaio del 1962, dedicato alla città di Vigevano, e pubblicato su “Il Giorno“.
      “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti, cinquantasettemila, di operai, venticinquemila, di milionari, battaglioni affiancati; di librerie, neanche una”. La sentenza fu inappellabile, e la condanna, definitiva. Alle sconcezze che esibiva in quanto città italiana Napoli aggiungeva sconcezze proprie e particolari, in nome del principio che, secondo Bocca, riassumeva tutta la filosofia napoletana: qui il peggio rientra nella normalità. “L’Italia è tutta uno schifo, ma a Napoli va un po’ peggio“. Tra il 2004 e il 2005 il giornalista, sollecitato dalle prime scene dello spettacolo della monnezza, dedicò alla città alcuni articoli assai aspri.
      Quegli articoli provocarono a Napoli commenti stizziti e risposte furibonde, che egli poi trascrisse, nel 2006, nel libro “Napoli siamo noi“. Un titolo volutamente ambiguo, aperto a una doppia lettura: Napoli siamo noi, perché la città è, con chiarezza didattica, la sintesi di tutti i mali italiani, oppure perché, se non risolviamo i problemi di Napoli, non risolveremo i problemi dell’Italia. Nel 2004 Bocca aveva formulato un duro giudizio sulla napoletanità, intendendola come “folklore che copre l’insipienza del disordine, finta solidarietà che copre il perdurante sfruttamento dei deboli“: “questa napoletanità risulta francamente repellente, indegna di una grande città civile”.
      Questa grande città non risolve mai nessuno dei suoi problemi, a Napoli “il problema vero è sempre un altro, che altri dovrebbero risolvere… Napoli è stata fatta così com’è oggi dalla sua storia, e la sua storia è segnata da una mancanza o dalla debolezza di una classe dirigente capace di perseguire il bene comune. L’unica giustificazione di questa storia è che nella modernità il perseguimento del bene comune non è né possibile né desiderato”. La napoletanità tanto severamente condannata da Bocca era, diciamo così, un’idea di Raffaele La Capria. Napoli è abitata da due “nazioni“: il popolo alto e la plebe. Atterrito dalla violenza plebea del 1799, il popolo “alto“ decide di creare un patrimonio di miti da condividere con la plebe, per convincerla che il popolo napoletano è uno solo, e soprattutto per ammansirla.
      I “miti“ comuni, costruiti nel tempo, sono il dialetto, la pasta, la pizza, la canzone, il teatro di Viviani e di Eduardo. Questa è la napoletanità di Raffaele La Capria. Il quale, ritenendo di essere un bersaglio degli articoli di Bocca, rispose, prima dichiarando, garbatamente, che la napoletanità “è una vera e propria forma di civiltà”, e dunque non può essere espressione di una città che sia solo “un paese di camorristi adoratori di pulcinella”; poi, riconoscendo, maliziosamente, che alla napoletanità avrebbe giovato un po’ dell’ “austero e severo moralismo“ di Bocca, ma anche che lo spirito della napoletanità avrebbe addolcito, nel giornalista, se egli ne avesse accettato l’influenza, “la monotona seriosità del giustiziere“: e voleva dire, La Capria, che mancava a Bocca quel senso dell’umorismo ironico che scintilla, invece, nell’intelligenza dei napoletani.
      Ma non fu garbata la reazione di Ermanno Rea, il quale classificò i “pezzi“ di Bocca come “l’invenzione di una vecchia scarpa littoria carica di nostalgia“: un insulto sanguinoso per uno che pensava e scriveva i suoi articoli con l’animo di chi non ha mai cessato di sentirsi un partigiano in guerra contro tutte le possibili versioni e riedizioni del fascismo. Il sindaco di Napoli, signora Iervolino, adombrò il sospetto che gli articoli fossero un attacco premeditato al centrosinistra che governava la città, e quindi giovassero alla causa di Berlusconi. Un professore della Federico II bollò Bocca come “tuttologo“.
      A tutti Bocca rispose in “Napoli siamo noi: rispose indirettamente, attraverso il “medaglione“ dedicato a Amato Lamberti: “Amato Lamberti è nato a San Maurizio Canavese, ha fatto le scuole a Bussoleno in Val di Susa, ma poi è andato a Napoli, di cui è un grande conoscitore per aver diretto, per anni, l’Osservatorio sulla camorra e fatto parte dell’ amministrazione cittadina. Parlare di Napoli con uno che ha fatto le scuole a Bussoleno, sotto il Roccamelone e l’abbazia di Novalesa, è tornare alla chiarezza. Con Lamberti non si recita, si parla, non si fa ammuina, si comunica”. Amato Lamberti gli spiegò, tra l’altro, che nella Napoli delle due “nazioni“ la camorra aveva preso il posto della napoletanità di La Capria: assicurava la sopravvivenza dei “marginali“ e impediva loro di “assaltare i regolari”.
      Giorgio Bocca avrebbe potuto, prendendo le mosse da questa amara verità, riconsiderare il ruolo che i piemontesi svolsero a Napoli tra il 1861 e il 1864, riconoscere la gravità degli errori che essi commisero, la vergogna dei soprusi di cui furono responsabili. Non lo fece: il rigore morale piemontese era un cardine della sua visione del mondo, del suo modo di essere: non avrebbe mai nutrito dubbi sulla sua verità storica. E poiché questo rigore si manifestava prima di tutto nel culto della giustizia, Bocca indagava gli uomini e le cose con una lucidità spietata, perché nell’Italia gaglioffa che egli descriveva come “antitaliano“ conoscere la realtà era in sé un primo atto di giustizia.
      Gli estremisti dell’idealismo hanno spesso il genio e il gusto del realismo estremo. Bocca interrogava uomini e cose in una prospettiva agonistica: l’incontro era sempre un confronto, e le interviste erano duelli. Nel luglio del ’79 intervistò Lucio Dalla, e aprì l’articolo con questo raffinato gioco retorico: Lucio Dalla “piacerebbe anche a me se non fosse elettrico e retrattile come un gatto durante il temporale, impaziente di farmi sapere subito, in due minuti, come è e il contrario di come è, semplice? no, sofisticato; sofisticato? no, semplice; amico? sì, ma con il sottinteso che per lui puoi anche essere uno stronzo”.
      Giorgio Bocca è stato un italiano scomodo. Il destino gli ha concesso il privilegio di osservare, meravigliandosi fino all’ultimo giorno, a quali altezze sanno salire gli Italiani, e in quali baratri possono sprofondare. Forse vide in Napoli la Sirena che poteva incantarlo, confondergli le carte, e indurlo al dubbio. Si difese con la piemontesità: “…io sono di Cuneo e se gioco, gioco ai tarocchi o alle bocce. Sai cosa dicono i giocatori di bocce al momento di contare i punti, dalle mie parti?: bocce ferme. Nessun trucco, nessuno spostamento dell’ultimo secondo, le cose stanno come sono”.
      Nemmeno in fotografia la luce di Napoli permette che le cose stiano come sono. Ma forse è un pregio, una “virtù” filosofica
      .

      (Sul “Mediano”, in apertura dell’articolo, c’è la riproduzione di “Libertà di parola”, un quadro di Norman Rockwell del 1943)

  4. “ComUnità”, 3 luglio 2012, http://leonardo.comunita.unita.it/2012/07/03/la-prossima-prevedibile-catastrofe-naturale/
    LA PROSSIMA PREVEDIBILE CATASTROFE NATURALE
    Leonardo Tondelli
    Va bene, abbiamo capito, siamo una terra sismica e avremmo dovuto saperlo prima. Facevamo finta di niente, ignoravamo tutti gli indizi che pure erano a portata di mano, scommettevamo sul fatto che certe cose capitano una generazione ogni venti, vuoi proprio che dovesse capitare a noi? Siamo stati ingenui e sprovveduti, criminalmente sprovveduti. Soprattutto coi capannoni: li volevamo sempre più grossi, sempre più alti, sempre più rapidi da tirar su, ci siamo tirati il collo per acquistare o prendere in affitto delle trappole per topi. È stata una grossa cazzata. Però possiamo rimediare. I morti restano morti, ma i feriti possiamo curarli, i senzatetto indennizzarli, e l’Emilia può diventare antisismica, se si impegna. Ci vorranno soldi ma li troveremo, ci aiuterà l’Italia e persino l’Europa, e in generale ci aiuteremo da soli. Magari nel giro di pochi anni la casetta di legno diventerà un elemento tipico del paesaggio, dove prima c’era il casolare ristrutturato. Magari i nuovi capannoni antisismici saranno anche più belli. In fondo tutto cambia, perché non dovrebbe cambiare la Bassa, anche in meglio. Va bene.

    E il Veneto?
    Perché, cosa c’entra il Veneto, adesso?
    No, niente, è che anche il Veneto, come l’Emilia, non esiste. Sono due nomi diversi per una terra che non comincia e non finisce, e si stende tra le Alpi e gli Appennini. Ci passa un fiume in mezzo, ma le faglie corrono molto più sotto, ignorando le futili divisioni amministrative. Quindi la domanda è: mentre qui ci mettiamo a montare case di legno (per ora sono poco più di rimesse per gli attrezzi, ma qualcuno la sta già ordinando coi servizi e la veranda), in Veneto qualcuno si preoccupa di verificare l’antisismicità degli edifici? Mentre noi ripensiamo totalmente la tipologia delle strutture nelle zone industriali, in Veneto qualcuno ci sta facendo un pensiero? O continuano a timbrare il cartellino e a entrare nei loro capannoni come niente fosse? Perché il Veneto è sismico quanto lo siamo noi. Perché il terremoto padano più distruttivo del medioevo non ebbe un epicentro in Emilia, ma tra Verona e Brescia: nel 1117, fece crollare il rivestimento esterno dell’Arena e il duomo. Naturalmente è lecito sperare che a una generazione che ha vissuto da bambina il terremoto del Friuli e da grande quello in Emilia almeno un sisma in Veneto dovrebbe essere risparmiato. Ma lo sciame che è venuto di qua dal Po, sarebbe potuto venire anche di là. Il fatto che sia venuto qua piuttosto che là non dovrebbe cambiare nulla. Certo ora noi siamo spaventati, siamo ansiosi, ci teniamo a mettere in sicurezza le nostre case e le nostre fabbriche, ma perché in Veneto non dovrebbero essere altrettanto preoccupati?

    Dico il Veneto perché è una regione poco lontana, simile per prodotto lordo, per densità di popolazione e per rischio sismico. Ma a ben vedere il discorso vale per tutte le regioni d’Italia: per qualcuna più che per le altre, ma nessuna dovrebbe sentirsi esclusa. Basta dare un’occhiata alla storia sismica del nostro Paese. Se però qualcuno vuole previsioni più accurate, c’è un altro fenomeno ricorrente che è particolarmente in ritardo sulla sua tabella di marcia: il Vesuvio. Da qualche secolo a questa parte si era stabilizzato in un ritmo ciclico, che prevedeva un’eruzione distruttiva più o meno ogni quarant’anni. L’ultima si è verificata durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi più niente. Il periodo ciclico si è evidentemente interrotto, e i vulcanologi ritengono che la prossima eruzione sarà particolarmente disastrosa. Capite cosa abbiamo qui? Qualcosa che i sismologi non possono assolutamente darci, la previsione di un disastro in una località geografica ben definita, i vulcanologi ce la servono un vassoio d’argento. Il Vesuvio erutterà: è già esploso in passato, e sappiamo bene cos’è successo. Una nube ardente, di gas ad altissima temperatura, sterminò la popolazione di Pompei. I lapilli poi la coprirono. Quel che è successo nell’antichità potrebbe succedere ancora: l’unica differenza importante è che oggi alle pendici del Vesuvio non sorgono alcune fiorenti cittadine, ma la seconda o terza hinterland italiana per densità di popolazione. Mentre noi qui ci riorganizziamo e ci addestriamo a reagire meglio a una calamità che nel nostro territorio potrebbe non ripresentarsi più per altri 300 anni, sotto al Vesuvio fanno qualcosa? Ci sono ancora feriti durante le esercitazioni? La statale è ancora parzialmente ostruita dallo sverso dei rifiuti? Il Vesuvio prima o poi si risveglierà. È un’evenienza ben più probabile e facile da localizzare di qualsiasi prossimo terremoto. Non c’è bisogno di consultare indovini o scienziati maledetti: il disastro è già stato previsto, il luogo dove si verificherà lo conosciamo. Vogliamo parlarne?

    Spero di sbagliarmi, ma ho la sensazione che no, non se ne voglia parlare. Che almeno a un certo livello si sia già fatto un calcolo, troppo osceno per essere divulgato, e si sia concluso che anche in questo caso sarà più semplice sensibilizzare gli italiani dopo il disastro che prima. Ho la sensazione che nei cassetti delle redazioni, dove si tengono i coccodrilli per quei personaggi anziani che potrebbero morire da un momento all’altro, si possano trovare anche gli editoriali furenti e dolenti per un disastro naturale terribile e terribilmente annunciato – l’eruzione del Vesuvio. Con gli spazi bianchi dove inserire lo spazio per le vittime (decine? centinaia? di più?) e i miliardi di danni; e tante parole di sdegno per la speculazione edilizia sul cono del vulcano; per le prove di evacuazione insufficienti; per la criminale miopia della classe politica. Che forse non è poi così miope davvero. Forse – ed è terribile pensarlo – ha semplicemente già fatto i suoi conti.

    – – –

    (tra i) COMMENTI:

    Carlo de Rosa (04-07-2012)
    Una micidiale eruzione del vesuvio.Pensate,un numero di morti che si avvicina al milione.Napoli distrutta,un milione di campani in meno.Pensate cosa passa nella mente di Borghezio prima e degli affaristi dopo.Poi ci sono i politicanti che pensano che una opportunita’ simile difficilmente si ripresenta,per risolvere la crisi Italiana per qualche decennio.Miliardi di euro che piovono in Italia da tutto il mondo da parte dei governi e delle popolazioni commosse.Intanto qui da noi un consumo impressionante di spumante per i brindisi.Piena occupazione,sviluppo costantemente in crescita.E la coscenza della gente? Mah…Questo e’ un paese che ha scoperto i martiri…per il bene comune

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